martedì, dicembre 28, 2010

patafisica

opere per lo spettacolo teatrale 
"L'estasi della neve" 
ovvero la grande farsa patafisica

                                               ritratto di Alfred Jarry






lunedì, dicembre 13, 2010

Patafisica maiuscola
Antonio Castronuovo
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 Dicembre 2010, n. 586
http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00586.html

Squisitamente e delicatamente elitaria è la Patafisica, anche se uno dei suoi assiomi, assurto ad articolo 3.1 degli Statuti, indica che il genere umano è composto solo di patafisici. Dov’è allora l’elitarismo se tutti siamo patafisici? Semplice: il nobile transito sta nel rendersi conto di esserlo, nella consapevolezza che si è nati patafisici e che si vive da patafisici, lo si voglia o no. Anzi: proprio quando sorge la coscienza di esserlo e si mira a toccare le alte sfere, ecco: proprio in quel momento ti accorgi di quanto sia elitaria la Scienza.
Già, perché a quel punto, se solo osi fare un passo, se solo affermi che vorresti entrare nel tempio e dimessamente genufletterti, orbene: sarebbe proprio quello il massimo errore. Non bisogna mai chiedere di “entrare”; patafisici lo si è nel fondo dell’anima e non bisogna assolutamente compiere alcun passo, soltanto nutrire fiducia: prima o poi qualcuno della gerarchia si accorgerà della tua essenza e ti coopterà. Ci vuole pazienza e umiltà. Umiltà soprattutto, qualità assai apprezzata nel mondo patafisico (naturalmente non nella forma untuosa: in quel mondo vige certamente un rispetto assoluto della gerarchia, ma non sono amati gli adulatori, gli incensatori e i ruffiani – vade retro). Umiltà, tuttavia, che non reprime l’applicazione del cosiddetto “capitalismo patafisico”, cioè il fatto che le maiuscole (lettere capitali) vi abbondano: i gradi gerarchici, le commissioni, le cattedre ecc. sono tutti maiuscoli, e guai se non lo fossero.
Poi c’è la questione della finanza, pardon phynanza. Chiunque appartenga alla gerarchia avverte l’immenso onore di pagare per esserlo. Pagare, nella Patafisica, non è un dovere: è un diritto. E devo confessare che ciò non corrisponde a un’esagerazione comica, null’affatto. Il grado infimo che rivesto, Uditore Apparente, l’ultimo in basso della gerarchia, è tuttavia sufficiente a farmi avvertire quella sensazione, il delizioso piacere di sborsare danaro per concorrere alla vita della Scienza, il diritto che mi sono conquistato di poter pagare. Non è poco.
La storia della Patafisica è nota: il singolare Alfred Jarry (1873-1907) la inventò «poiché ce n’era un gran bisogno» e partorì l’immortale Ubu Re, come anche la figura del dottor Faustroll, enunciatore della Scienza. Per capire di che si tratta bisogna rifarsi ad Aristotele, che i libri sugli dèi li aveva collocati sul suo scaffale oltre (meta) quelli di fisica e li chiamò pertanto libri di metafisica. Stessa cosa fece Jarry: poiché la sua scienza si collocava sopra la metafisica (epi meta ta phisika) la chiamò ’Patafisica. Attenzione: l’apostrofo ci vuole. Distingue la Patafisica “inventata” in modo cosciente da quella istintuale che proviene dalla notte dei tempi, e che non ha bisogno di apostrofo. Non sono quisquilie.
Faustroll (bella accoppiata di Faust e Troll, con tutto ciò che ne consegue) definisce la Patafisica «scienza delle soluzioni immaginarie e delle leggi che regolano le eccezioni», vale a dire scienza dei fenomeni stravaganti e ubiqui. E in quanto tale, orgogliosa: s’interessa di tutto, e s’interessa di continuo, perché nel mondo tutto è eccezione e tutto è immaginazione. Non basta: sebbene inventata in un momento della storia, la Patafisica ha gorgogliato da sempre nella testa dei cosiddetti Patacessori. Si dice che il primo sia stato Zenone di Elea, a causa del famoso argomento della tartaruga che arriva al traguardo prima della freccia di Achille. Ma io sono convinto che la prima manifestazione patafisica sia stata il Disco di Festo, non foss’altro che per la sua ambiguità, per il fatto che nessuno sa che cosa voglia dire.
Per dare ordine e continuità alla scienza, nel 1948 nacque a Parigi, nel retrobottega della “Maison des Amis du Livre”, la famosa libreria di Adrienne Monnier al numero 7 di rue de l’Odeon, il Collegio di Patafisica. Presto si formò una gerarchia di alte personalità, tra cui i titoli si sprecavano (Reggente, Satrapo, Magnificenza, Imperatore ecc.). Vi hanno avuto spicco nomi come Queneau, Vian, Ionesco e Sua Magnificenza Lutembi, un coccodrillo ugandese. «Una società di ricerche sagge e inutili», si autodefinì il Collegio, decretando nel proprio Statuto che suo compito era di «promuove la Patafisica in questo mondo e in tutti gli altri». E vorrei vedere non fosse così, per una scienza universale. Oggi il Collegio è eccellentemente, pregevolmente ed eminentemente retto da Thieri Foulc.
A seguito dell’istituto parigino, varie emanazioni si ebbero in Europa: in Inghilterra, Svizzera, Olanda, Belgio (dove ha operato André Blavier, autore della famosa bibbia I folli letterari), Svezia e perfino in Finlandia, dove la Patafisica – fondata dal meccanico di biciclette Timo Pekkanen – accende se non altro un po’ di calore. Non basta: dal pollone patafisico sono emanate eccentriche società a sfondo letterario, come l’OuLiPo (OUvroir de LIttérature POtentielle) e la controparte italianaOpLePo (OPificio di LEtteratura POtenziale). Alla loro radice una feconda miscela di libertà e costrizione: scrivere imponendosi qualche norma restrittiva non frena l’invenzione ma le dà ossigeno. Come la volta che Perec scrisse un intero romanzo senza la “e” e lo chiamò La sparizione. Quel che era sparita era la vocale, ma i primi recensori mica se ne accorsero.
In Italia tutta una serie di istituti è stata ispirata da Enrico Baj, fecondo artista e patafisico di rango che ci ha lasciato nel 2003 (ricordo solo l’Istituto Patafisico Mediolanense sorto nel 1963). Oggi è particolarmente attivo il Collage de Pataphysique, che sebbene abbia un sonoro nome francese è creatura assai italiana, ideata e saldamente guidata da Tania Lorandi, artista immaginifica e animatrice di macchine celibi che vive sul lago d’Iseo. L’istituto si chiama Collage e non College perché incolla tra loro decine di artisti, scrittori e qualche bighellone. Tutta gente comunque molto seria, in alcuni casi addirittura compunta.
I citati istituti sembrano irreali, tanto sono discreti. La ragione è che l’homo pataphysicus è per sua natura introverso e taciturno (e perciò molto attivo); è quasi sempre un erudito miope, studia molto, lavora troppo. In un afflato rinascimentale, egli adora il proprio studiolo, foderato di libri e di quegli oggetti curiosi che costituiscono la trama di una personale wunderkammer. Nella mia, ad esempio, non manca un angolo di incantevoli ceramiche: una stupenda giduglia (la spirale, simbolo patafisico per eccellenza) firmata a pennarello da Baj, due civette (mio simbolo personale), la riproduzione di una colonna dorica e del suddetto Disco di Festo; il tutto di fianco a una foto di Groucho Marx (il solo vero marxista che ci sia stato) e uno scaffaletto di libri sacri: da Jarry a Blavier, dalCorrespondancier (la rivista del Collegio) agli Essays di Montaigne, maestro di scetticismo.
Che altro aggiungere? Solo questo: la Patafisica, in quanto realtà che elide le altre, ha un suo calendario, che prende le mosse dall’8 settembre 1873, giorno nativo di Jarry, e che corrisponde al primo del mese di Assoluto dell’Era Patafisica. Oggi siamo dunque nel 138. L’era volgare è un’altra cosa. E non a caso si scrive con le lettere minuscole.

sabato, novembre 20, 2010

Ugo Cornia e Dino Baldi più un deejay radiofonico al ''Mondo dei libri''

Marcel Duchamp

Sabato 20 novembre alle 17,30 la libreria di via Sardelli in collaborazione con l'Amministrazione comunale di Poggibonsi incontro con gli scrittori


Due libri, la “Bicicletta Patafisica” ed un format radiofonico dal vivo saranno i protagonisti sabato 20 novembre alle 17,30 alla Libreria “Il Mondo dei Libri” in via Sardelli a Poggibonsi. La serata organizzata in collaborazione con il Comune di Poggibonsi, vedrà la presenza di Dino Baldi che presenta il suo “Morti favolose degli antichi” e di Ugo Cornia con “Operette ipotetiche”entrambi pubblicati dall'editore Quodlibet 2010. I due autori saranno introdotti e intervistati da Paolo Maccari.

Nella presentazione della serata viene promesso che “si parlerà di due libri (ma anche di molti altri), di morti esemplari e favolose di persone illustri, delle più autentiche verità ipotetiche, del resuscitare faraoni oggi e dell’essere oggi Giove e Mercurio; vi saranno letture e altri silenzi”. Nell’occasione sarà eccezionalmente esposta per la seconda volta la “Bicicletta patafisica”, realizzata appositamente per Poggibonsi nel maggio 2006, con testi inediti di Edoardo Sanguineti, Fernando Arrabal e Jean Baudrillard.

Sarà poi il momento di “Eclettica Live tra i libri” una versione live dello stesso format della trasmissione radiofonica Eclettica di Giulio Caperdoni, un modo per creare atmosfera con un flusso di musica adagiata tra incipit letterari e sprazzi cinematografici. I presenti potranno scegliere libri dagli scaffali della libreria e consegnarli in consolle dove Giulio Caperdoni ne leggerà l'incipit fra un brano e l'altro.


INFO:
Il Mondo dei Libri 0577 939165
Comune di Poggibonsi 0577 986203, info@comune.poggibonsi.si.it

FONTE: http://www.sienafree.it/poggibonsi/16222-ugo-cornia-e-dino-baldi-piu-un-deejay-radiofonico-al-mondo-dei-libri

lunedì, ottobre 25, 2010

PATArubrica N.7 - ‘PataKoan: Elementi di 'Patafisica avanzata



PATArubrica N.7 - ‘PataKoan: Elementi di 'Patafisica avanzata
Di: Giovanni Ricciardi
Data: 20.10.2010
Argomento: Arte


"Se intraprendete lo studio di un koan e vi ci dedicate senza interrompervi, scompariranno i vostri pensieri e svaniranno i bisogni dell'io. Un abisso privo di fondo vi si aprirà davanti e nessun appiglio sarà a portata della vostra mano e su nessun appoggio si potrà posare il vostro piede. La morte vi è di fronte mentre il vostro cuore è incendiato. Allora, improvvisamente sarete una sola cosa con il koan e il corpo-mente si separerà. Tutto ciò, è vedere la propria natura."[1] del Maestro Zen Hakuin, Orategama.

Ma come? Nel titolo si parlava di ‘patakoan e qui si parla di Zen? Degli antichissimi Koan! Ma che confusione!
Tutto normale, la confusione è una peculiarità appartenente all’essere umano. Merdre! Bene, sia chiaro fin dall’inizio che chiamarli Koan o ‘Patakoan non fa nessuna differenza. Tutto questo, rimane infatti per noi, una applicazione Patafisica inconsapevole sviluppata da Hakunin Ekaku, monaco Buddista giapponese nel 1700.
Cina, Giappone, per la grande tradizione Zen, i Koan sono quesiti assurdi, immaginati e costruiti per indurre il discepolo a percepire nel modo più diretto i limiti della logica, della dialettica e soprattutto del ragionamento.
I Koan vengono immaginati tra un maestro e il suo discepolo al quale viene rivelata la natura ultima della realtà. Eppure, l'utilizzo della pratica del koan appare in modo sporadico già nel IX secolo in Cina. Con il diffondersi di questa pratica, nei monasteri chán si iniziarono a raccogliere i koan all'interno di opere e raccolte.

Uno dei koan più famosi è quello dell’oca la quale, ancora uovo viene sistemato in una bottiglia, l’uovo si rompe, l’oca cresce e nel koan si chiede: "Come si fa a far uscire l’oca dalla bottiglia, senza uccidere l’oca e senza rompere la bottiglia ?". Qui parte l’effetto estraniante, poiché la mente umana inizia un’attività del tutto assurda, cerca di unire significati, possibilità, si rende conto delle impossibili soluzioni. Eppure, nonostante ci si renda conto istantaneamente dell’impossibilità della situazione non ci si arrende, la mente continua pensando che una soluzione ci debba assolutamente essere altrimenti il quesito non si porrebbe. Ma un Koan non ha soluzione, poiché crea un circolo continuo tra l’impossibile e il probabile.
Ritornando alla questione dell’oca, una soluzione ci sarebbe. Anche qui la mente umana è riuscita a darsi una risposta per lo meno plausibile. La risposta possibile è che: l’oca è fuori. Per anni il monaco zen si è chiesto come far uscire l’oca dalla bottiglia e la risposta è che l’oca è già fuori. Eppure il Koan era stato creato per creare l’impossibilità della situazione, un moto perpetuo della mente che ripensa se stesso all’infinito. Ma anche qui la mente umana ha creato una via di fuga. È facile quanto fuorviante etichettare tutto ciò semplicemente come un’assurdità, come un gioco assurdo. In più ci fa notare sagacemente Fabrizio Ponzetta [2]:

"In realtà il segreto della vita è celato in questo koan e nella sua risposta più famosa. Se onestamente si prova a rispondere al koan, orientando la propria mente alla sua soluzione, anche solo per cinque minuti consecutivi, ci si ritrova con le spalle al muro, faccia a faccia con l’incapacità di risolvere un quesito in apparenza semplice. La mente si concentra e non trova risposta. Questo koan diventa temporaneamente la sua occupazione, la sua ricerca, la sua vita, la sua realtà...in gergo: una fissazione.
Non è solo un nonsense. È far uscire la mente da una realtà fittizia, poco importa se creata appositamente. L’oca è già fuori, e tu sei impegnato a trovare un modo per farla uscire. È una metafora vivente: mentre si è impegnati a risolvere con la mente un quesito della mente, la risposta è che il quesito stesso non ha motivo di esistere
".

Proponiamo adesso i successivi esercizi i quali sono prossimi allo spirito dei Koan per questo vengono chiamati ‘Patakoan. [3] Sono rompicapi presentati sotto forma di brevi storie e paradossi, oppure sotto forma di dialoghi. Questioni poste sul fatto che per la mente umana a volte il quesito stesso è più importante o esistente del problema in sé.
Questo è soprattutto l’esempio di come l’uomo crei delle sovrastrutture ad ogni forma di pensiero ponendo plurime e continue forme di signicanti ad ogni significato. L’ontologia addirittura non sarebbe che un embrione di finzioni tra le altre e specificatamente del particolare il quale sprigiona infiniti significanti.
A questo punto, qui nasce il quesito di cosa sia stato creato per prima, se l’oggetto o la sua funzione. (che è molto peggio della questione dell’uovo e della gallina). Se per un esempio banale, un cancello sia stato ai suoi albori la concretizzazione di un pensiero, del separare o viceversa, se cioè una barriera già esistente abbia creato il pensiero di un cancello, di una separazione possibile.

I patakoans con le loro eccezioni si occupano di forzare e fare apparire il cerchio che racchiude l’imbarazzo, le difficoltà racchiuse nelle interrogazioni suggerite. Sperimentazioni ideologiche, inventario di proposte, non pretendono verso alcuno progresso, e ad alcuna sintesi dialettica. La circolarità è evidente, l’impasse diventa perpetuo. L’inutilità apparente è la stessa dei grossi quesiti dell’esistenza.

PATAKOAN

1
Che nulla entri qui se pretende avanzare!
Dämon Sir, De la liberté du 'pataphysicien. (della libertà del ‘patafisico)

2
Che cos’è la ‘Patafisica?
- E’ questo.

3
- Che cos’è la patafisica?
- Che cosa non è la patafisica?

4
Qual è il dovere di un ‘patafisico?
- Essere distaccato da ogni dovere.

5
- Come raggiungere la leggerezza patafisica?
- Non avendo legami che vi incatenino
- E quali sono i legami che ci incatenano?
- Il desiderio e l’attesa di una leggerezza patafisica!

6
Sono entrato nella ‘patafisica lasciandomi fuori...

7
Un bambino prega suo padre di condurlo al museo: Portami a vedere il museo!
Una volta lì scopre i primitivi, la scuola italiana, i Fiamminghi. Rimane estasiato davanti le incisioni del Dürer.
Alla fine della visita domanda: "Abbiamo visto tutti i quadri, siamo entrati in tutte le sale, ma il museo di cui tutti parlano, dov’è ?"

8
Dialogo del saggio Taoista e del ‘patafilosofo.
A: - Pretendere di uscire dall’essere, non porta che a ritrovarsi nel vuoto.
B: - Pretendere di trovarsi nel vuoto, è mettere le mani sull’essere.

9
All’alba, Romeo lascia Giulietta dopo una nuova note d’amore.
Cammina per la città visibilmente angosciato e turbato.
In una piazza di Verona incontra Mercurio.
Che lo deride sulla sua defaiance notturna
R- Ti sbagli amico mio, lo interrompe Romeo.
M- ?
R- ...più la prendo, meno la posseggo.

10
...l'amore è cieco,
Dio è amore,
Ray Charles è cieco
quindi Ray Charles...è Dio!

Con questo ultimo Patakoan messo insieme da Vinicio Capossela vi salutiamo, invitandovi volentieri a mettere insieme i vostri patakoan e ad inserirli qui attraverso i commenti di questa Patarubrica.

Faustrollicamente vostro.

Note:
1. Hakuin, Orategama
2. Storia e storie di un'eresia chiamata Zen. Fabrizio Ponzetta - Jubal Editore
3. 'Koan Pata, Paradossi 'patafisici di Adonis Colgue.



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"Il viaggiatore onirico, uno spettacolo jazz" di Emanuele Conte

FONTE 
il-viaggiatore-onirico 23/10/2010
GENOVA - “Il viaggiatore onirico – uno spettacolo jazz” di Emanuele Conte tratto da un romanzo di Boris Vian (dal 28 ottobre al 6 novembre). La Tosse inaugura la nuova stagione con Boris Vian. Da giovedì 28 ottobre a sabato 6 novembre, ore 21.00 (domenica 31 ottobre, ore 18.30), Teatro della Tosse.
Un progetto del Teatro della Tosse per il Festival della Scienza 2010 è Il viaggiatore Onirico, uno spettacolo jazz. Molto ma molto liberamente tratto da AUTUNNO A PECHINO di Boris Vian, regia di Emanuele Conte, musiche di Dado Moroni, videopriezioni e animazioni di Gregorio Giannotta, scena di Luigi Ferrando, costumi di Bruno Cereseto, luci e suoni Tiziano Scali, assistente alla regia Gianni Masella.
Il viaggiatore onirico è una coproduzione tra il Teatro della Tosse e il Festival della Scienza, che da fin dalla prima edizione collaborano insieme con crescente successo.
Il viaggiatore onirico di Conte è un lavoro, che ragiona sulla dimensione del sogno e sulle dinamiche della comunicazione inconscia. I mezzi di trasporto reali sono un’allegoria per analizzare i punti di contatto visibili e invisibili tra sogno e realtà, mantenendo intatta la potenza eversiva delle opere di Vian.
L’impatto visivo dello spettacolo è molto forte, e catapulta lo spettatore in una realtà bidimensionale in bianco e nero, grazie all’uso di proiezioni video e all’interazione tra attore e disegni animati.
I postromantici e bizzarri protagonisti di questa storia, interpretati da Enrico Campanati, Pietro Fabbri, Silvia Bottini, Alberto Bergamini, Nicholas Brandon e Alessandro Bergallo interagiscono sul palco con personaggi creati dall’illustratore Gregorio Giannotta, che per lo spettacolo ha realizzato centinaia di tavole. Giannotta ha pubblicato disegni, illustrazioni e storie a fumetti per diversi editori, e ha collaborato alla realizzazione di diversi film d’animazione. Nel 2001 ha partecipato alla biennale dei giovani artisti a Sarayevo.
I disegni animati saranno proiettati sul palco trasformando il teatro in un luogo sospeso tra due dimensioni. Dai bozzetti di Giannotta, Bruno Cereseto ha realizzato i costumi di scena.
Terzo elemento fondamentale dello spettacolo, insieme agli attori e ai disegni animati, sarà la musica di Dado Moroni. Il grande musicista italiano ha composto le musiche originali dello spettacolo, diventandone anche un protagonista. Gregorio Giannotta, infatti ha creato/disegnato un Dado Moroni in matita e pastelli, che sarà in scena con gli attori in carne e ossa.
Nessuno meglio di un jazzista di fama mondiale poteva tradurre in note le pagine scritte da Boris Vian. Moroni ha saputo cogliere le sfumature, le improvvisazioni e gli umori dell’artista francese, che prima di diventare scrittore è stato un grande jazzista degli anni ’40, e questo stile musicale così imprevedibile è stato anche il filo conduttore della sua opera letteraria.
A rendere ancora più fantastica l’atmosfera sono le scene, realizzate da Luigi Ferrando, che coinvolgono emotivamente lo spettatore trasportandolo in una dimensione grottesca in bilico tra il fantastico e la realtà. La scena verrà percorsa in lungo e in largo dai protagonisti, ma grazie all’uso di botole e porte oblique i personaggi potranno salire e scendere sfidando, come nei sogni le leggi della forza di gravità. Un mondo dominato dalle regole della patafisica, ovvero la scienza delle soluzioni immaginarie.
Grazie a questo spettacolo la Tosse ritorna alle sue origini: scena, costumi e luci giocano con il bianco e il nero come accadeva nell’Ubu Re, messo in scena da Tonino Conte ed Emanuele Luzzati nel 1975, primissimo titolo della lunga storia del teatro della Tosse. Molti sono anche i punti di contatto tra Alfred Jarry, autore dell’Ubu e padre del teatro dell’assurdo, e la scrittura “jazzistica” di Boris Vian.
Protagonista della storia è Amadis Dudu, interpretato da Enrico Campanati, un subdolo e ambiguo impiegato, che si reca al lavoro facendo sempre lo stesso percorso. Un giorno sale su uno strano autobus, con un controllore bizzarro e un autista folle, che invece che condurlo davanti all’ufficio lo portano in Exopotamia.
In questa terra a metà strada tra la realtà e il sogno, Amadis incontrerà personaggi bizzarri e soprattutto si imbarcherà in un’impresa tanto mastodontica quanto inutile: la costruzione di una ferrovia in mezzo al deserto. Tra professori stravaganti, ingegneri eccentrici (lo stesso Vian era un ingegnere), segretarie provocanti, politici ambigui e ristoratori irremovibili si snoda un’avventura grottesca costellata di sorprese.
Uno spettacolo jazz, proprio come la scrittura di Vian fatta di improvvisazioni, discrepanze e sorprendenti armonie. Nel viaggiatore onirico confluiscono diversi elementi, che pur mantenendo un’identità precisa e singolare riescono ad unirsi in un unico spartito. Diversi piani di lettura, che si
intrecciano e si snodano, si inseguono e si scontrano come nel teatro di Jarry oppure come nei sogni.
Una storia poetica, visionaria e bizzarra in un mix di generi e umori, che rendendo omaggio al grande artista transalpino - di cui il Teatro della Tosse lo scorso anno aveva celebrato il cinquantenario dalla scomparsa con lo spettacolo/omaggio Gala de Musique de Boris Vian - , che esplora il mondo onirico.
All’inizio dello spettacolo, infatti Angel (Alessandro Bergallo) sale sul palco per dare la carica a un grande orologio a cucù, che si trasforma in un cervello. È qui tra le sinapsi e i neuroni, che si forma l’attività onirica dell’uomo e che si svolgono i fatti de Il viaggiatore onirico.
Il mondo onirico è uno spazio dentro tutti noi, del quale conosciamo relativamente poco. Freud, il padre della psicanalisi, ha sempre detto che “il sogno è la via maestra per esplorare l'inconscio" oltre a costituire il mezzo più efficace per osservare le fantasie rimosse dall'area della coscienza durante il giorno, che vengono rappresentate come in una specie di teatro durante la notte.
Il viaggiatore onirico sarà in scena da giovedì 28 ottobre a sabato 6 novembre, Sala Aldo Trionfo.
L’incasso della prima serata sarà interamente devoluto alla LILT (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori - Sezione di Genova), che sta lavorando ad “Ancora Donna”, un nuovo progetto dedicato alle donne in chemioterapia e in radioterapia. Il progetto, che intende fornire un aiuto concreto alla donna, è completamente gratuito, e sarà situato all’interno di “Casa Amici”, una grande casa dedicata ai malati oncologici provenienti da lontano e situata in Corso Europa 44/1.

giovedì, settembre 23, 2010

25 settembre a benevento

locandina3Sabato 25 settembre,presso il Club La Fagianella di Benevento inaugurazione della mostra di macchine patafisiche e spettacolo ‘patafisico Esercizi di stile e ‘patafisici frammenti, regia di Raffaele Rizzo.
La patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie.
Alfred Jarry, creatore della patafisica fu lo scrittore francese Alfred Jarry che nel suo dramma Ubu cornuto (anno 1897) scrisse: «La patafisica è quella scienza che abbiamo inventato perché se ne sentiva il bisogno». Scienza, filosofia, stile di vita. È impossibile definire la ‘patafisica’, significherebbe tradirla. Niente di meglio, quindi, per farsi un’idea, che partecipare alla Serata ‘patafisica’ che si terrà sabato 25 settembre presso il Club La Fagianella, in contrada San Liberatore a Benevento.
Mostra – ore 19.00
La serata si aprirà con l’inaugurazione della mostra di macchine ‘patafisiche. Gli artisti espositori (Francesco Alessio, Giancarlo Altamura, Ciop & Caf, Gianfranco De Angelis, Gerardo Di Fiore, Giacomo Faiella, Nando Gaeta, Rocco Grasso, Rosaria Matarese, Salvatore Paladino, Mario Persico, Andrea Sparaco, Paolo Ventriglia) sono stati invitati a progettare, ognuno a proprio modo, macchine patafisiche. Non mancherà un interessante e divertente intervento di Mario Persico, rettore dell’Istituto Patafisico Partenopeo, nonchè pittore patafisico.
Spettacolo – ore 20.30 (Durata 75 minuti)
A seguire, la performance “Esercizi di stile e ‘patafisici frammenti”, diretta da Raffaele Rizzo.
«Non si può parlare di un vero e proprio spettacolo – spiega Rizzo – sono piuttosto contributi individuali da parte degli attori che daranno vita a qualcosa che non si può ancora descrivere». D’altra parte nelle note di regia si legge: «Lo spettacolo dipende principalmente dal pubblico. E allora, prendiamo posto, e vediamo il pubblico di questa sera che cosa fa nascere sulla scena e, finalmente, che cos’è ’sta ’patafisica!».
In scena gli attori (Monica Palomby, Arturo Muselli, Rosanna Borgo, Antonio Iorio, Gerardo Del Prete, Nora Puntillo e Mimmo Grasso) si misureranno sul testo di Raymond Queneau “Esercizi di stile” e su testi di Raffaele Rizzo. Queneau nel suo libro ri-scrive la stessa storia per ben 99 volte, ma sempre in maniera nuova e facendo ricorso a diverse figure retoriche.
Le cuciture sonore e le stravaganze musicali saranno opera del trio Potlach, con Clemente Amoroso al contrabbasso, Franco Basile al sax e flauto e Marco Mattiello alla chitarra elettrica.
Infine, durante la performance si alterneranno undici slides che giocano sul simbolo dell’Istituto Patafisico Partenopeo raffigurante un tre di bastone che è considerata «figura ubuica, con quei baffoni e bocca digrignante». Autore dei giochi visivi è Giacomo Faiella.
L’ingresso è gratuito

La Rivoluzione della Rivelazione di René Daumal: parte 2 – Dalla patafisica alla metafisica

La Rivoluzione della Rivelazione di René Daumal: parte 2 – Dalla patafisica alla metafisica

di Luca Ormelli    
FONTE

«Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere». Così si esprime René Daumal ne La Gran Bevuta [Adelphi, Milano, 1997, p. 146] un «lungo racconto, scritto nel 1935 e pubblicato nel 1938, in cui si vede sfilare tutta una serie di errori viventi, nei quali ognuno può riconoscere i propri, con l’intenzione di annullare un discorso non fatto di parole che “comunichino una verità”» [dalla postfazione di Claudio Rugafiori a René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002, p. 148].
La Gran Bevuta è un racconto sul racconto che, inteso ab ovo, si fa mito e dunque mito-logia. La sua redazione, ci informa Marco Enrico Giacomelli [René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007 pp. 216 e 217]: «risale al periodo del viaggio statunitense, fra il 1932 e il marzo dell’anno successivo. In seguito il testo viene più volte rimaneggiato, fino alla stesura “definitiva” del 1937. Il progetto originario, del quale reca una traccia evidente la prima parte, consiste in una sorta di autobiografia degli anni trascorsi sotto il segno delSimplisme e del Grand Jeu. Esperienze definitivamente concluse, che l’autore ritiene di poter osservare con distacco». E’ dunque una “Mitobiografia” secondo la celebre definizione dello junghiano Ernst Bernhard. La scrupolosità con cui Daumal scrive e cesella le proprie pagine “narrative” appare sin d’ora caratterizzante tanto che, a proposito dell’inultimato e, secondo Rugafiori, «inultimabile» Monte Analogo (che de La Gran Bevuta è «in un certo senso, la continuazione» – ibidem) lo stesso Rugafiori ebbe a dire che: «Questo libro, che avrebbe dovuto essere abbastanza lungo, è stato scritto con estrema lentezza; Daumal lo iniziò nel 1939, a Pelvoux in Savoia, terminò il primo capitolo in due mesi, in seguito proseguì sempre più adagio fino all’aprile 1944. Pensando che in quel periodo, se si eccettua qualche breve traduzione di testi sanscriti e qualche lavoro di revisione, egli non preparava altro, si può misurare la meticolosità e i ripensamenti di ognuna di queste pagine» [Il Monte Analogo, cit., p. 149].
Una “Mitobiografia” si è scritto ma, e soprattutto, una ferocissima satira, una sarabanda vorticosa di conio rabelaisiano e jarryano, e segnatamente dello Jarry di Faustrolldramatis figure quelle di Rabelais e di Jarry che compariranno “di persona” nel testo. Una satira che diviene terapia del riso, l’umore dell’ascesi laddove il buffone, il foolshakespeariano si traveste di cromatismi indù come attesta Daumal nei suoi studi sul teatro tradizionale (studi dai quali si palesa il forte sincronismo e fil rouge che appaia il percorso di Daumal a quello di Artaud, in ispecie dell’Artaud de Il Teatro e il suo doppio): «E’ di castabrahmanica, confidente e guida dell’eroe, ma sempre sotto la maschera del grottesco e della stupidità. [...] La sua origine è tutt’altra che un’intenzione di satira sociale. [...] Arti e religioni degenerano quando scompare l’elemento umoristico» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 217].
Il ritorno a Parigi coincide dunque per Daumal con l’approfondimento della tradizione indù attraverso l’insegnamento (già ricordato) reperibile nei volumi dati alle stampe di Guénon [del quale Daumal, in una recensione del 1928 dirà: «Guénon non tradisce mai il pensiero indù per dei bisogni particolari della filosofia occidentale. (...) Se parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda. Nei suoi libri forse vi sono errori, interpretazioni sbagliate; non so, ma certo non tradisce» - Il Monte Analogo, cit., p. 154] e dalla persona fisica di Alexandre de Salzmann  (cui Il Monte Analogo sarà dedicato) discepolo quest’ultimo di Gurdjieff ed in seguito alla sua morte ad opera della moglie Jeanne de Salzmann. «Io, di mestiere, sono scrittore e vorrei un giorno essere poeta. La porta che per me si apre sulla tradizione indù è dunque quella delle scienze del linguaggio, della retorica e della poetica» stante che per gli antichi saggi indù (conclude Rugafiori): «l’idea di costruzione era implicata solo dai testi, dunque dalle espressioni che dovevano essere imparate a memoria, e che originavano vere e proprie “costruzioni mnemoniche”» [Il Monte Analogo, cit., p. 151]. Superando quindi grazie all’apprendimento della lingua sanscrita (che designa ciò che è “compiuto, perfetto”) i rudimenti della conoscenza indù mediante il lavoro diretto sui testi Daumal, in seguito all’incontro con la scuola gurdjieffiana di Salzmann viene iniziato a tutta una serie di pratiche ed esercizi per l’igiene psicofisica volti a debellare gli automatsimi corporei e/o mentali. Per Daumal (ancora Rugafiori): «la macchina corporea, avendo assunto un rango primario, richiedeva tutti i mezzi per una sua distruzione o per un suo possesso. Scriverà infatti l’Autore che: “pur desiderando operare con tutte le mie forze per distruggere il mio corpo, devo cominciare con il possederlo (nel significato più forte del termine: come un diavolo può possedere un corpo”). La terza e ultima parte de La Gran Bevuta intitolata “La comune luce del giorno” racconta di una discesa nel corpo umano manovrato da scimmie antropomorfe e descritto come una grande macchina idraulica» [Il Monte Analogo, cit., p. 156], testualmente l’intero paragrafo 7: «Erano grandi scimmie antropomorfe che fino a quel momento erano rimaste accoccolate, invisibili e silenziose, in ogni angolo. (…) Educare delle scimmie a far funzionare e a muovere il meccanismo, è difficile. Educare delle scimmie a equilibrare gli impulsi e le reazioni della macchina, è ancora più difficile. Educare delle scimmie a dirigere il veicolo, non vedo quando oserò soltanto sperare di riuscirvi. Eppure solo allora sarò il padrone, andrò dove vorrò, senza legami, senza paura, senza illusioni» [La Gran Bevuta, cit., pp. 175-176].
E la scimmia di sesso femminile, si badi, in francese si chiama Guenon. Un simbolo, quello della scimmia, che richiamandosi alle tradizioni sino-giapponesi defluisce poi alla simbolica occidentale con la definizione dell’Uomo quale “scimmia di Dio” e della Massoneria, libera “confraternita” quale scimmia della Chiesa. Di rimando in rimando, la metafora della macchina è assai cara a Daumal che degli automi della contemporaneità criticherà sovente il malfunzionamento: «L’uomo è una macchina; la coscienza una luce che l’illumina. La nostra odierna “coscienza” è in realtà sonno, oscurità quasi totale. [...] La macchina funziona pressappoco bene nell’oscurità – quanto basta per i bisogni della vita quotidiana (per esempio si può scrivere un grosso trattato di filosofia*, restando però addormentati). Rispetto alla macchina, il risveglio della coscienza è come un fascio di luce: un fatto di tutt’altro ordine. Quando si produce, rispetto al nostro stato di sonno (consiste in questo: ci confondiamo con la macchina) è qualcosa d’istantaneo, che si sviluppa in un’altra dimensione. Non abbiamo nessun potere sulla coscienza, non possiamo maneggiare a piacimento il proiettore». Ed ancora, poco oltre: «Noi abbiamo un minuscolo potere su certe parti della macchina (a cominciare per esempio dal nostro modo di pensare – dalle pose e smorfie inutili del nostro corpo) [...] in questo consiste il lavoro lungo e difficile, prima studiare, poi indebolire progressivamente gli ostacoli che portano alla coscienza» [in René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001, pp. 9-10 – corsivo dell'Autore].
E parte integrante di questo viatico sarà quel viaggio che dal termine della notte più cupa (dagli abissi dell’ebbrezza, dagli antri dell’Io e del subconscio dunque) consente il dischiudersi alla vista delle cime incontaminate del Sé, dell’inconscio, dell’Eterno impersonale (come già ricordato in apertura della parte 1 di cui si compone questa “escursione” sopra Mont Daumal). Se, perciò «ne Il Monte Analogo il viaggio fa rotta verso l’ascesa di vette paradisiache, ne La Gran Bevutasono Inferno e Purgatorio i protagonisti» [in Marco Enrico Giacomelli,René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 219]. A latere, si annoti che ne Il Monte Analogo l’isola-continente (contenente) “aveva luogo” agli antipodi dell’area geografico-simbolica della Terra Santa [Il Monte Analogo, cit., p. 59] quindi «nel Pacifico meridionale»,analogamente il Purgatorio dantesco si ergeva inabissandosi agli antipodi della Gerusalemme storica patria di quel Melchisedec, Re di Salem (come da Genesi 14, 18) figura trattata da Guénon ne Il Re del Mondo, di cui Il Monte Analogo costituisce una sorta di controcanto narrativo. Inoltre, come puntualmente evidenzia Giacomelli, Mallarmé (altro nume riconosciuto da Daumal) così si pronunciò: «La distruzione fu la mia Beatrice» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 43].
Un viaggio, questo de La Gran Bevuta che come da Tradizione è tri-partito. Un cammino di finzione che inganna l’occhio disattento con untrompe l’œil letterario che non esclude (tutt’altro ne enfatizza) dietro le abili cortine dell’ironia un minuzioso studio su  “I poteri della Parola”: «Impieghiamo qui, ancora una volta, il procedimento letterario del risveglio e riprendiamo il linguaggio illusorio che ci è così comodo» [La Gran Bevuta, cit., pp. 177-178]. Ed è altresì la questione del linguaggio che “chiude” il romanzo e, al contempo, lo dischiude poiché nella “Premessa che può servire da istruzioni per l’uso” Daumal afferma: «Io nego che un pensiero chiaro possa essere indicibile. Tuttavia l’apparenza mi contraddice: perché, come vi è una certa intensità di dolore in cui il corpo non è più interessato perché, se ne fosse partecipe sia pure con un singhiozzo, sarebbe, sembra, subito ridotto in cenere, come vi è un culmine in cui il dolore vola con le sue proprie ali, così vi è una certa intensità del pensiero in cui le parole non hanno più parte. Le parole convengono a una certa precisione del pensiero, come le lacrime a un certo grado del dolore. Il più vago è innominabile, il più preciso è indicibile. Ma, davvero, non è che un’apparenza. Se il linguaggio non esprime con precisione che un’intensità media del pensiero, è perché la media dell’umanità pensa con quel grado di intensità; è a quell’intensità che acconsente, è a quel grado di precisione che aderisce. Se non riusciamo a farci capire chiaramente, non è lo strumento che dobbiamo accusare» [La Gran Bevuta, cit., p. 13].
E’ lo stesso Daumal a soccorrerci in qualità di auto-esegeta: «Nessun meccanismo verbale può creare verità. Nessun pensiero reale può esprimersi in parole se non è stato vissuto. Ma l’uso costante del linguaggio parlato nei rapporti umani crea l’illusione che il linguaggio possa contenere in se stesso una conoscenza. Se un forestiero, nella città in cui abito, mi chiede la strada, gliela indicherò usando parole. Ma egli non percorrerà quella strada che per il fatto di avere una ragione o un desiderio di recarsi in quel dato posto della città. Ora, da sempre, gli uomini giunti a vivere una conoscenza hanno visto venire a sé altri uomini che domandavano loro la strada; coloro che avevano una meta  e un desiderio di andare ricevevano le indicazioni e si mettevano in cammino. Ma la maggior parte restava lì, accontentandosi di imparare a memoria le spiegazioni del maestro, di abbellirle con la retorica, di disporle in forme logiche, infine di tracciare delle mappe; e, ciò facendo, immaginava di viaggiare» [in René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968, pp. 50-51]. Riflessioni queste che non si discostano, se non per il tono, peculiarmente lieve e scanzonato, da quelle di alcuni pensatori coevi al Nostro quali Heidegger e Wittgenstein dei quali i trattati su “I poteri della Parola” e sul linguaggio certo non difettano di gravità.
La Gran Bevuta è quindi, come il successivo Monte Analogo, pur nella repulsione che al Daumal maturo destano le parole “letterarie” [«l'odore di quella letteratura che non è altro che un ripiego, l'odore della parole che si mettono in fila per dispensarsi dall'agire, o per consolarsi di non potere» - Il Monte Analogo, cit., p. 135] un percorso che l’Autore mette a disposizione di chi desideri seguirlo, provandosi e provandoci «della “necessità” di intraprendere il viaggio» [Il Monte Analogo, cit., p. 148], a sé consapevole che gli errori ne caratterizzeranno la via, o meglio ammonendoci a cercarli perché, come rammentavamo in altro luogo di questa sezione: «Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere».
[Fine parte 2 – continua]
*: o, alternativamente, questo as-saggio….


Riferimenti minimi:
René Daumal, La Gran Bevuta, Adelphi, Milano, 1997.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002.
René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968.
René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001.
Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007.
La tesi di Marco (che qui ringrazio apertamente) è reperibile all’indirizzo internet: http://amsdottorato.cib.unibo.it/181/1/Marco_Enrico_GIACOMELLI.pdf
L’Autore ne sta curando la revisione che vedrà la luce per i tipi della Bulzoni Editore di Roma entro il termine del 2010 con il titolo di: Un filosofo tra patafisica e surrealismo. René Daumal dal Grand Jeu all’induismo.

PATArubrica N.3 - Il grande motore della macchina ’Patafisica: Il Collège de ’Pataphysique (Prima parte)

PATArubrica N.3 - Il grande motore della macchina ’Patafisica: Il Collège de ’Pataphysique (Prima parte)

Giovanni Ricciardi - 22.09.2010
Un benvenuto soprattutto a voi rari lettori. 
Oggi è 15 Assoluto 138 E.P. giorno dedicato all' Ethernità. 
In Etherno, dedichiamo questa Patarubrica al grande motore che ha avviato al mondo la Scienza di tutte le scienze ed i suoi precisi studi. Sono contento di farlo qui per voi in qualità di Corrispondente Anfiteota proprio del Collège de 'Pataphysique, così che da questa posizione più o meno scientifica, spero di poter sradicare quei suoi caratteri a volte visti con difficoltà e distacco e ristabilirne il suo storico e atemporale interesse nonché, non dimentichiamo, il suo inutile funzionamento.

Dal sito ufficiale del Collège si legge: "Il Nuovo Organo del Collège de 'Pataphysique è un luogo aperto a tutti". Questa citazione firmata Février F.Bauvoisin [1] suggerisce una nuova epoca e generazione 'Patafisica del Collège.
Ma andiamo in ordine, (eccezionalmente per una volta) questa è una premessa importante per iniziare ad introdurre quell'anima che fino a pochi decenni fa ha vivificato questa "société secrète, minoritaires par vocation" come l'ha definita il Dottor Irénée-Louis Sandomir suo fondatore nel 1948. Eppure, essereminoritaria per vocazione, non era per Sandomir né una chiusura né una provocazione, come chiarisce Serge Senninger: 

"Essere minoritario per vocazione oppure per provocazione sono due cose differenti. La vocazione implica la solitudine, la provocazione invece, la folla. Questa avventura dipende invece dalla vocazione che è aspirazione discreta e ugualmente segreta nelle sue manifestazioni come nei risultati [2]".

Per il Collège de 'Pataphysique la vocazione è in ogni momento della sua storia quella di riconoscere la patafisicità dell'uomo, studiare le particolarità del mondo abbracciandolo tutto come prendendone la parte più infinitesimale e assumerla quale unica ed enorme soluzione immaginaria. 
Dunque il Collegio oggi è dichiaratamente un luogo aperto, raccoglie materiale e studi ‘Patafisici di rilievo pubblicandolo nelle proprie edizioni, ma conserva in sé sempre quella patina che lo rende come invisibile, a tratti inafferrabile e sempre con quella gerarchia inamovibile di cui tra poco ne illustreremo le patafisiche impalcature.
Chiariamo subito per sfatare ogni dubbio e idea errata, che il collegio di patafisica non è un' associazione degli amici di Alfred Jarry e non ha mai fatto "letteratura", bensì raccoglie ed emana il frutto di quelle applicazioni scientifiche descritte nei propri postulati. E' talmente fedele e coerente ai propri contenuti Patafisici, da rendersi esso stesso, visibile e contemporaneamente inesistente. Così come la patafisica non è affatto una forma di umorismo né di esoterismo, il Collège de 'Pataphysique è una società di ricerche ardue, ma si badi bene, coscientemente inutili. Queste direzioni di ricerca sono multiple e i patafisici si riferiscono ai casi particolari, ai margini, all'errore, ma trattano anche del generale, dell'universale, dell'universo. 
Vediamo di ricostruire ora quella storia che ha visto il Collège diventare non solo un luogo fisico di incontro, di frequentazione, bensì un piano, una tangente intellettuale che in modo immaginario ha unito quasi tutte le personalità più feconde del ‘900. 

Il funzionamento del Collège de 'Pataphysique è retto da STATUTI proclamati nel 76 dell'era patafisica (un anno dopo la fondazione del collegio) dal Vice-curatore fondatore Iréné-Louis Sandomir, e controfirmati dalla Provveditrice Generale Mélanie Le Plumet, il provveditore Generale aggiunto e Rogatore Jean Hugues Sainmoint e il Moderatore Amovibile (Provvisorio) Oktav Votka. Gli statuti sono pubblicati lo stesso anno in un pubblicazione interna del Collège [3].
Nel secondo capitolo degli Statuti troviamo descritta con estrema precisione la gerarchia degli ottimati. In alto su tutto si trova il Curatore inamovibile il Dottor Faustroll con la sua scimmia Bosse-de-Nage, poi il Vice-Curatore, a cui è delegata la gestione del magistero, fino ad oggi ne sono susseguiti quattro: il Vice-Curatore fondatore Sandomir, Il Barone Mollet, Opach e Lutembi. Quest'ultimo, ne regge l'attuale magistero. "Sua Magnificenza" è la nomina che spetta puntualmente ad ogni Vice-curatore.
Di seguito, gli statuti del Collegio continuano la rappresentazione gerarchica delegando un corpo di Provveditori ad amministrare i propri beni. Questi, amministrano sia i beni immaginari come quelli reali del Collège, organizzandone le pubblicazioni e le manifestazioni. Ai Provveditori spetta il compito di creare nuove cattedre dei Reggenti dopo averne accertato, sempre patafisicamente, le adeguate attività. Per aiutare l'internazionalizzazione delle attività del Collegio, sono stati creati dei Provveditori-Propagatori. (Provéditeurs-Propagateurs Sérénissimes).
Il corpo successivo è costituito dai Satrapi che, secondo gli Statuti, "non agiscono nel college che con la loro presenza, o ugualmente, con la loro assenza", qualificati come trascendenti, hanno tra di loro figure illustri come Raymond Queneau, Michel Leiris, Jean Dubuffet, Noël Arnaud o ancora Fernando Arrabal, e in Italia, Umberto Eco, Dario Fo, Errico Baj, Eduardo Sanguineti.
Le funzioni d'insegnamento sono tutelate dai Reggenti che occupano le 27 cattedre fondamentali previste dagli statuti. Il numero di cattedre non è limitativo quindi i titolari di questo corpo sono in realtà molto più numerosi. 
Seguono a questi ultimi i Datari, i quali costituiscono il rango essenziale dell'amministrazione del Collegio, anche se il loro ruolo può sembrare subalterno. Ruy Launoir li qualifica "laboriosi funzionari" [4]. Essi servono in due strutture: La Rogazione (Rogation), di cui la funzione consiste a mantenere i legami tra i corpi, e il Nuovo Organo (Novum Organum du College de 'Pataphysique). Questo corpo possiede ugualmente la propria gerarchia interna che si identifica in Protodatari, Vice-Protodatari, Deuté Rodatari, Datari e Sotto-Datari. Li si qualifica Equanimi.
Infine, gli Auditori e i Corrispondenti. Si distingue tra Auditori e Corrispondenti Reali e Auditori e Corrispondenti Apparenti. Alcuni sono anche nominati quali Auditori o Corrispondenti Anfiteota. Gli Auditori si qualificano come Stimati. Il Funzionamento del Collège de 'Pataphysique è mosso infine da una struttura molto articolata di sotto-commissioni. Ci sono 77 Sotto-Commissioni, divise a loro volta da 7 Commissioni, di cui alcune accostate da Co-commissions o appaiono a volte delle Intermissioni (15 in totale), loro stesse generano 2 Ac-commissions. 
Tutte sono sotto una Sur-commissione; I Provveditori Generali, che la compongono, possono inoltre dividersi tra una Transcommissione e una Precommissione. Terminiamo qui la prima parte riguardo il Collège de 'Pataphysique e rimandiamo alla prossima Patarubrica dove entreremo nel vivo della sua storia fatta di personalità così illustri. Approfondiremo poi l'occultazione e disoccultazione fino alle ultime attività scientifiche dei nostri giorni. 

Note :
1. Riferimento al sito : http://www.college-de-pataphysique.org/college/accueil.html 
2. Dai Carnets du Collège de Pataphysique, Serge Senninger: Journal d 'Anatole / Sythes à Sion. Serge Senninger è Provéditeur-Provecteur Général du Collège de 'Pataphysique. 
3. Collège de ‘Pataphysique. Statuts du Collège de ‘Pataphysique. Paris, Collège de ‘Pataphysique, 76 (1949).
4. Come ci suggerisce Alexandre Boutet nel suo testo Les publications du Collège de ‘Pataphysique à la bibliothèque de l'Arsenal. Alexandre Boutet, 2005



mercoledì, settembre 08, 2010


Recensione Il Re Rosa – Bao Publishing

mercoledì, 8 settembre 2010 10:33 - Scritto da Sergio L. Duma.

il re rosa cover 210x300 Recensione Il Re Rosa – Bao PublishingAutore: David B. (testi e disegni)
Casa EditriceBao Publishing
Provenienza: Francia
Prezzo: € 14, 22 x 31, pp. 48

David B. è uno degli autori più rilevanti del fumetto francese. Fondatore della casa editrice indipendente L’Association, nonché artista conosciuto prevalentemente per i suoi disegni in bianco e nero, a partire dagli anni ottanta ha dimostrato di possedere notevole talento e una eterogenea ispirazione. Oltre ad essere prolifico, David B., bisogna riconoscerglielo, ha spesso intrapreso strade espressive peculiari, al di fuori delle mode e delle tendenze, seguendo sempre e comunque le proprie esigenze comunicative.
La Bao Publishing ha proposto di recente una delle sue opere, Il Re Rosa, graphic novel certamente caratterizzata da una originalità che, a mio avviso, si discosta un po’ dal resto della produzione di David B. Innanzitutto, va puntualizzato che Roi Rose è l’adattamento fumettistico di un racconto di Pierre Mac Orlan.
Costui, oltre che narratore, fu pittore e giornalista e, soprattutto, uno dei più autorevoli esponenti del Collegio di Patafisica, che contava tra i suoi membri gente del calibro di André Gide, Boris Vian e James Joyce. Questa tendenza fu inventata dallo scrittore gay Alfred Jarry, autore di Ubu Roi, nume tutelare dei surrealisti, noto per essere stato l’adepto di una divinità legata al sesso e agli istinti, per essersi dipinto la faccia di verde in onore dell’assenzio e per aver inventato una cadenza di linguaggio robotica, con la quale si esprimeva in pubblico.
Come si può intuire, l’immaginario patafisico non è facile da rendere in ambito fumettistico; ma David B. non si è fatto intimidire e ha realizzato un’opera alla quale pensava da diversi anni. Protagonista della storia è l’equipaggio del mitico Olandese Volante. Da tempo immemorabile, i suoi componenti sono morti ma condannati a vivere nei fondali marini. Ogni notte, però, tornano al loro veliero e, per passare il tempo, attaccano transatlantici e mercantili, sperando di rimanere coinvolti in una tragedia che conceda loro il riposo definitivo.
Invece, entrano in contatto con un bambino vivo, molto dolce e carino, e peraltro non intimidito dall’aspetto dei pirati, che sono sostanzialmente scheletri degni di un film di Tim Burton. E, volenti o nolenti, i defunti sono costretti ad occuparsi del piccolino.
Re Rosa è un esperimento interessante, con momenti divertenti e altri macabri, che potrà piacere agli amanti del fumetto francese e a coloro che apprezzano il fantasy (anche se tale definizione la uso in senso indicativo). Tuttavia, la mia sensazione è che la storia in sé sia piuttosto debole, non so se per colpa di David B. o a causa di una sua intrinseca natura (ricordiamoci che la trama è farina del sacco di Mac Orlan!).
I disegni non sono male ma, sinceramente, preferisco il David B. delle opere in bianco e nero; e, in questo caso, la graphic novel, pur non essendo da bocciare, avrebbe potuto essere impostata in maniera migliore. Lo stesso vale per i testi, vivaci e adatti all’atmosfera della vicenda; però sono forse privi di elementi espressivi di stampo, appunto, ‘patafisico’, in linea con Mac Orlan, e che sarebbero stati appropriati.
Il libro è ben realizzato dal punto di vista editoriale. Ma ritengo che quattordici euro per un volume di quarantotto pagine siano eccessivi e avrei gradito comunque leggere almeno qualche notizia introduttiva su David B., considerando che, nel caso di Mac Orlan, tali notizie ci sono.

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