La Rivoluzione della Rivelazione di René Daumal: parte 2 – Dalla patafisica alla metafisica
di Luca Ormelli
FONTE
«Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere». Così si esprime René Daumal ne La Gran Bevuta [Adelphi, Milano, 1997, p. 146] un «lungo racconto, scritto nel 1935 e pubblicato nel 1938, in cui si vede sfilare tutta una serie di errori viventi, nei quali ognuno può riconoscere i propri, con l’intenzione di annullare un discorso non fatto di parole che “comunichino una verità”» [dalla postfazione di Claudio Rugafiori a René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002, p. 148].
La Gran Bevuta è un racconto sul racconto che, inteso ab ovo, si fa mito e dunque mito-logia. La sua redazione, ci informa Marco Enrico Giacomelli [René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007 pp. 216 e 217]: «risale al periodo del viaggio statunitense, fra il 1932 e il marzo dell’anno successivo. In seguito il testo viene più volte rimaneggiato, fino alla stesura “definitiva” del 1937. Il progetto originario, del quale reca una traccia evidente la prima parte, consiste in una sorta di autobiografia degli anni trascorsi sotto il segno delSimplisme e del Grand Jeu. Esperienze definitivamente concluse, che l’autore ritiene di poter osservare con distacco». E’ dunque una “Mitobiografia” secondo la celebre definizione dello junghiano Ernst Bernhard. La scrupolosità con cui Daumal scrive e cesella le proprie pagine “narrative” appare sin d’ora caratterizzante tanto che, a proposito dell’inultimato e, secondo Rugafiori, «inultimabile» Monte Analogo (che de La Gran Bevuta è «in un certo senso, la continuazione» – ibidem) lo stesso Rugafiori ebbe a dire che: «Questo libro, che avrebbe dovuto essere abbastanza lungo, è stato scritto con estrema lentezza; Daumal lo iniziò nel 1939, a Pelvoux in Savoia, terminò il primo capitolo in due mesi, in seguito proseguì sempre più adagio fino all’aprile 1944. Pensando che in quel periodo, se si eccettua qualche breve traduzione di testi sanscriti e qualche lavoro di revisione, egli non preparava altro, si può misurare la meticolosità e i ripensamenti di ognuna di queste pagine» [Il Monte Analogo, cit., p. 149].
Una “Mitobiografia” si è scritto ma, e soprattutto, una ferocissima satira, una sarabanda vorticosa di conio rabelaisiano e jarryano, e segnatamente dello Jarry di Faustroll, dramatis figure quelle di Rabelais e di Jarry che compariranno “di persona” nel testo. Una satira che diviene terapia del riso, l’umore dell’ascesi laddove il buffone, il foolshakespeariano si traveste di cromatismi indù come attesta Daumal nei suoi studi sul teatro tradizionale (studi dai quali si palesa il forte sincronismo e fil rouge che appaia il percorso di Daumal a quello di Artaud, in ispecie dell’Artaud de Il Teatro e il suo doppio): «E’ di castabrahmanica, confidente e guida dell’eroe, ma sempre sotto la maschera del grottesco e della stupidità. [...] La sua origine è tutt’altra che un’intenzione di satira sociale. [...] Arti e religioni degenerano quando scompare l’elemento umoristico» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 217].
Il ritorno a Parigi coincide dunque per Daumal con l’approfondimento della tradizione indù attraverso l’insegnamento (già ricordato) reperibile nei volumi dati alle stampe di Guénon [del quale Daumal, in una recensione del 1928 dirà: «Guénon non tradisce mai il pensiero indù per dei bisogni particolari della filosofia occidentale. (...) Se parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda. Nei suoi libri forse vi sono errori, interpretazioni sbagliate; non so, ma certo non tradisce» - Il Monte Analogo, cit., p. 154] e dalla persona fisica di Alexandre de Salzmann (cui Il Monte Analogo sarà dedicato) discepolo quest’ultimo di Gurdjieff ed in seguito alla sua morte ad opera della moglie Jeanne de Salzmann. «Io, di mestiere, sono scrittore e vorrei un giorno essere poeta. La porta che per me si apre sulla tradizione indù è dunque quella delle scienze del linguaggio, della retorica e della poetica» stante che per gli antichi saggi indù (conclude Rugafiori): «l’idea di costruzione era implicata solo dai testi, dunque dalle espressioni che dovevano essere imparate a memoria, e che originavano vere e proprie “costruzioni mnemoniche”» [Il Monte Analogo, cit., p. 151]. Superando quindi grazie all’apprendimento della lingua sanscrita (che designa ciò che è “compiuto, perfetto”) i rudimenti della conoscenza indù mediante il lavoro diretto sui testi Daumal, in seguito all’incontro con la scuola gurdjieffiana di Salzmann viene iniziato a tutta una serie di pratiche ed esercizi per l’igiene psicofisica volti a debellare gli automatsimi corporei e/o mentali. Per Daumal (ancora Rugafiori): «la macchina corporea, avendo assunto un rango primario, richiedeva tutti i mezzi per una sua distruzione o per un suo possesso. Scriverà infatti l’Autore che: “pur desiderando operare con tutte le mie forze per distruggere il mio corpo, devo cominciare con il possederlo (nel significato più forte del termine: come un diavolo può possedere un corpo”). La terza e ultima parte de La Gran Bevuta intitolata “La comune luce del giorno” racconta di una discesa nel corpo umano manovrato da scimmie antropomorfe e descritto come una grande macchina idraulica» [Il Monte Analogo, cit., p. 156], testualmente l’intero paragrafo 7: «Erano grandi scimmie antropomorfe che fino a quel momento erano rimaste accoccolate, invisibili e silenziose, in ogni angolo. (…) Educare delle scimmie a far funzionare e a muovere il meccanismo, è difficile. Educare delle scimmie a equilibrare gli impulsi e le reazioni della macchina, è ancora più difficile. Educare delle scimmie a dirigere il veicolo, non vedo quando oserò soltanto sperare di riuscirvi. Eppure solo allora sarò il padrone, andrò dove vorrò, senza legami, senza paura, senza illusioni» [La Gran Bevuta, cit., pp. 175-176].
E la scimmia di sesso femminile, si badi, in francese si chiama Guenon. Un simbolo, quello della scimmia, che richiamandosi alle tradizioni sino-giapponesi defluisce poi alla simbolica occidentale con la definizione dell’Uomo quale “scimmia di Dio” e della Massoneria, libera “confraternita” quale scimmia della Chiesa. Di rimando in rimando, la metafora della macchina è assai cara a Daumal che degli automi della contemporaneità criticherà sovente il malfunzionamento: «L’uomo è una macchina; la coscienza una luce che l’illumina. La nostra odierna “coscienza” è in realtà sonno, oscurità quasi totale. [...] La macchina funziona pressappoco bene nell’oscurità – quanto basta per i bisogni della vita quotidiana (per esempio si può scrivere un grosso trattato di filosofia*, restando però addormentati). Rispetto alla macchina, il risveglio della coscienza è come un fascio di luce: un fatto di tutt’altro ordine. Quando si produce, rispetto al nostro stato di sonno (consiste in questo: ci confondiamo con la macchina) è qualcosa d’istantaneo, che si sviluppa in un’altra dimensione. Non abbiamo nessun potere sulla coscienza, non possiamo maneggiare a piacimento il proiettore». Ed ancora, poco oltre: «Noi abbiamo un minuscolo potere su certe parti della macchina (a cominciare per esempio dal nostro modo di pensare – dalle pose e smorfie inutili del nostro corpo) [...] in questo consiste il lavoro lungo e difficile, prima studiare, poi indebolire progressivamente gli ostacoli che portano alla coscienza» [in René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001, pp. 9-10 – corsivo dell'Autore].
E parte integrante di questo viatico sarà quel viaggio che dal termine della notte più cupa (dagli abissi dell’ebbrezza, dagli antri dell’Io e del subconscio dunque) consente il dischiudersi alla vista delle cime incontaminate del Sé, dell’inconscio, dell’Eterno impersonale (come già ricordato in apertura della parte 1 di cui si compone questa “escursione” sopra Mont Daumal). Se, perciò «ne Il Monte Analogo il viaggio fa rotta verso l’ascesa di vette paradisiache, ne La Gran Bevutasono Inferno e Purgatorio i protagonisti» [in Marco Enrico Giacomelli,René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 219]. A latere, si annoti che ne Il Monte Analogo l’isola-continente (contenente) “aveva luogo” agli antipodi dell’area geografico-simbolica della Terra Santa [Il Monte Analogo, cit., p. 59] quindi «nel Pacifico meridionale»,analogamente il Purgatorio dantesco si ergeva inabissandosi agli antipodi della Gerusalemme storica patria di quel Melchisedec, Re di Salem (come da Genesi 14, 18) figura trattata da Guénon ne Il Re del Mondo, di cui Il Monte Analogo costituisce una sorta di controcanto narrativo. Inoltre, come puntualmente evidenzia Giacomelli, Mallarmé (altro nume riconosciuto da Daumal) così si pronunciò: «La distruzione fu la mia Beatrice» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 43].
Un viaggio, questo de La Gran Bevuta che come da Tradizione è tri-partito. Un cammino di finzione che inganna l’occhio disattento con untrompe l’œil letterario che non esclude (tutt’altro ne enfatizza) dietro le abili cortine dell’ironia un minuzioso studio su “I poteri della Parola”: «Impieghiamo qui, ancora una volta, il procedimento letterario del risveglio e riprendiamo il linguaggio illusorio che ci è così comodo» [La Gran Bevuta, cit., pp. 177-178]. Ed è altresì la questione del linguaggio che “chiude” il romanzo e, al contempo, lo dischiude poiché nella “Premessa che può servire da istruzioni per l’uso” Daumal afferma: «Io nego che un pensiero chiaro possa essere indicibile. Tuttavia l’apparenza mi contraddice: perché, come vi è una certa intensità di dolore in cui il corpo non è più interessato perché, se ne fosse partecipe sia pure con un singhiozzo, sarebbe, sembra, subito ridotto in cenere, come vi è un culmine in cui il dolore vola con le sue proprie ali, così vi è una certa intensità del pensiero in cui le parole non hanno più parte. Le parole convengono a una certa precisione del pensiero, come le lacrime a un certo grado del dolore. Il più vago è innominabile, il più preciso è indicibile. Ma, davvero, non è che un’apparenza. Se il linguaggio non esprime con precisione che un’intensità media del pensiero, è perché la media dell’umanità pensa con quel grado di intensità; è a quell’intensità che acconsente, è a quel grado di precisione che aderisce. Se non riusciamo a farci capire chiaramente, non è lo strumento che dobbiamo accusare» [La Gran Bevuta, cit., p. 13].
E’ lo stesso Daumal a soccorrerci in qualità di auto-esegeta: «Nessun meccanismo verbale può creare verità. Nessun pensiero reale può esprimersi in parole se non è stato vissuto. Ma l’uso costante del linguaggio parlato nei rapporti umani crea l’illusione che il linguaggio possa contenere in se stesso una conoscenza. Se un forestiero, nella città in cui abito, mi chiede la strada, gliela indicherò usando parole. Ma egli non percorrerà quella strada che per il fatto di avere una ragione o un desiderio di recarsi in quel dato posto della città. Ora, da sempre, gli uomini giunti a vivere una conoscenza hanno visto venire a sé altri uomini che domandavano loro la strada; coloro che avevano una meta e un desiderio di andare ricevevano le indicazioni e si mettevano in cammino. Ma la maggior parte restava lì, accontentandosi di imparare a memoria le spiegazioni del maestro, di abbellirle con la retorica, di disporle in forme logiche, infine di tracciare delle mappe; e, ciò facendo, immaginava di viaggiare» [in René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968, pp. 50-51]. Riflessioni queste che non si discostano, se non per il tono, peculiarmente lieve e scanzonato, da quelle di alcuni pensatori coevi al Nostro quali Heidegger e Wittgenstein dei quali i trattati su “I poteri della Parola” e sul linguaggio certo non difettano di gravità.
La Gran Bevuta è quindi, come il successivo Monte Analogo, pur nella repulsione che al Daumal maturo destano le parole “letterarie” [«l'odore di quella letteratura che non è altro che un ripiego, l'odore della parole che si mettono in fila per dispensarsi dall'agire, o per consolarsi di non potere» - Il Monte Analogo, cit., p. 135] un percorso che l’Autore mette a disposizione di chi desideri seguirlo, provandosi e provandoci «della “necessità” di intraprendere il viaggio» [Il Monte Analogo, cit., p. 148], a sé consapevole che gli errori ne caratterizzeranno la via, o meglio ammonendoci a cercarli perché, come rammentavamo in altro luogo di questa sezione: «Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere».
[Fine parte 2 – continua]
*: o, alternativamente, questo as-saggio….
Riferimenti minimi:
René Daumal, La Gran Bevuta, Adelphi, Milano, 1997.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002.
René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968.
René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001.
Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007.
La tesi di Marco (che qui ringrazio apertamente) è reperibile all’indirizzo internet: http://amsdottorato.cib.unibo.it/181/1/Marco_Enrico_GIACOMELLI.pdf
L’Autore ne sta curando la revisione che vedrà la luce per i tipi della Bulzoni Editore di Roma entro il termine del 2010 con il titolo di: Un filosofo tra patafisica e surrealismo. René Daumal dal Grand Jeu all’induismo.
FONTE
«Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere». Così si esprime René Daumal ne La Gran Bevuta [Adelphi, Milano, 1997, p. 146] un «lungo racconto, scritto nel 1935 e pubblicato nel 1938, in cui si vede sfilare tutta una serie di errori viventi, nei quali ognuno può riconoscere i propri, con l’intenzione di annullare un discorso non fatto di parole che “comunichino una verità”» [dalla postfazione di Claudio Rugafiori a René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002, p. 148].
La Gran Bevuta è un racconto sul racconto che, inteso ab ovo, si fa mito e dunque mito-logia. La sua redazione, ci informa Marco Enrico Giacomelli [René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007 pp. 216 e 217]: «risale al periodo del viaggio statunitense, fra il 1932 e il marzo dell’anno successivo. In seguito il testo viene più volte rimaneggiato, fino alla stesura “definitiva” del 1937. Il progetto originario, del quale reca una traccia evidente la prima parte, consiste in una sorta di autobiografia degli anni trascorsi sotto il segno delSimplisme e del Grand Jeu. Esperienze definitivamente concluse, che l’autore ritiene di poter osservare con distacco». E’ dunque una “Mitobiografia” secondo la celebre definizione dello junghiano Ernst Bernhard. La scrupolosità con cui Daumal scrive e cesella le proprie pagine “narrative” appare sin d’ora caratterizzante tanto che, a proposito dell’inultimato e, secondo Rugafiori, «inultimabile» Monte Analogo (che de La Gran Bevuta è «in un certo senso, la continuazione» – ibidem) lo stesso Rugafiori ebbe a dire che: «Questo libro, che avrebbe dovuto essere abbastanza lungo, è stato scritto con estrema lentezza; Daumal lo iniziò nel 1939, a Pelvoux in Savoia, terminò il primo capitolo in due mesi, in seguito proseguì sempre più adagio fino all’aprile 1944. Pensando che in quel periodo, se si eccettua qualche breve traduzione di testi sanscriti e qualche lavoro di revisione, egli non preparava altro, si può misurare la meticolosità e i ripensamenti di ognuna di queste pagine» [Il Monte Analogo, cit., p. 149].
Una “Mitobiografia” si è scritto ma, e soprattutto, una ferocissima satira, una sarabanda vorticosa di conio rabelaisiano e jarryano, e segnatamente dello Jarry di Faustroll, dramatis figure quelle di Rabelais e di Jarry che compariranno “di persona” nel testo. Una satira che diviene terapia del riso, l’umore dell’ascesi laddove il buffone, il foolshakespeariano si traveste di cromatismi indù come attesta Daumal nei suoi studi sul teatro tradizionale (studi dai quali si palesa il forte sincronismo e fil rouge che appaia il percorso di Daumal a quello di Artaud, in ispecie dell’Artaud de Il Teatro e il suo doppio): «E’ di castabrahmanica, confidente e guida dell’eroe, ma sempre sotto la maschera del grottesco e della stupidità. [...] La sua origine è tutt’altra che un’intenzione di satira sociale. [...] Arti e religioni degenerano quando scompare l’elemento umoristico» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 217].
Il ritorno a Parigi coincide dunque per Daumal con l’approfondimento della tradizione indù attraverso l’insegnamento (già ricordato) reperibile nei volumi dati alle stampe di Guénon [del quale Daumal, in una recensione del 1928 dirà: «Guénon non tradisce mai il pensiero indù per dei bisogni particolari della filosofia occidentale. (...) Se parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda. Nei suoi libri forse vi sono errori, interpretazioni sbagliate; non so, ma certo non tradisce» - Il Monte Analogo, cit., p. 154] e dalla persona fisica di Alexandre de Salzmann (cui Il Monte Analogo sarà dedicato) discepolo quest’ultimo di Gurdjieff ed in seguito alla sua morte ad opera della moglie Jeanne de Salzmann. «Io, di mestiere, sono scrittore e vorrei un giorno essere poeta. La porta che per me si apre sulla tradizione indù è dunque quella delle scienze del linguaggio, della retorica e della poetica» stante che per gli antichi saggi indù (conclude Rugafiori): «l’idea di costruzione era implicata solo dai testi, dunque dalle espressioni che dovevano essere imparate a memoria, e che originavano vere e proprie “costruzioni mnemoniche”» [Il Monte Analogo, cit., p. 151]. Superando quindi grazie all’apprendimento della lingua sanscrita (che designa ciò che è “compiuto, perfetto”) i rudimenti della conoscenza indù mediante il lavoro diretto sui testi Daumal, in seguito all’incontro con la scuola gurdjieffiana di Salzmann viene iniziato a tutta una serie di pratiche ed esercizi per l’igiene psicofisica volti a debellare gli automatsimi corporei e/o mentali. Per Daumal (ancora Rugafiori): «la macchina corporea, avendo assunto un rango primario, richiedeva tutti i mezzi per una sua distruzione o per un suo possesso. Scriverà infatti l’Autore che: “pur desiderando operare con tutte le mie forze per distruggere il mio corpo, devo cominciare con il possederlo (nel significato più forte del termine: come un diavolo può possedere un corpo”). La terza e ultima parte de La Gran Bevuta intitolata “La comune luce del giorno” racconta di una discesa nel corpo umano manovrato da scimmie antropomorfe e descritto come una grande macchina idraulica» [Il Monte Analogo, cit., p. 156], testualmente l’intero paragrafo 7: «Erano grandi scimmie antropomorfe che fino a quel momento erano rimaste accoccolate, invisibili e silenziose, in ogni angolo. (…) Educare delle scimmie a far funzionare e a muovere il meccanismo, è difficile. Educare delle scimmie a equilibrare gli impulsi e le reazioni della macchina, è ancora più difficile. Educare delle scimmie a dirigere il veicolo, non vedo quando oserò soltanto sperare di riuscirvi. Eppure solo allora sarò il padrone, andrò dove vorrò, senza legami, senza paura, senza illusioni» [La Gran Bevuta, cit., pp. 175-176].
E la scimmia di sesso femminile, si badi, in francese si chiama Guenon. Un simbolo, quello della scimmia, che richiamandosi alle tradizioni sino-giapponesi defluisce poi alla simbolica occidentale con la definizione dell’Uomo quale “scimmia di Dio” e della Massoneria, libera “confraternita” quale scimmia della Chiesa. Di rimando in rimando, la metafora della macchina è assai cara a Daumal che degli automi della contemporaneità criticherà sovente il malfunzionamento: «L’uomo è una macchina; la coscienza una luce che l’illumina. La nostra odierna “coscienza” è in realtà sonno, oscurità quasi totale. [...] La macchina funziona pressappoco bene nell’oscurità – quanto basta per i bisogni della vita quotidiana (per esempio si può scrivere un grosso trattato di filosofia*, restando però addormentati). Rispetto alla macchina, il risveglio della coscienza è come un fascio di luce: un fatto di tutt’altro ordine. Quando si produce, rispetto al nostro stato di sonno (consiste in questo: ci confondiamo con la macchina) è qualcosa d’istantaneo, che si sviluppa in un’altra dimensione. Non abbiamo nessun potere sulla coscienza, non possiamo maneggiare a piacimento il proiettore». Ed ancora, poco oltre: «Noi abbiamo un minuscolo potere su certe parti della macchina (a cominciare per esempio dal nostro modo di pensare – dalle pose e smorfie inutili del nostro corpo) [...] in questo consiste il lavoro lungo e difficile, prima studiare, poi indebolire progressivamente gli ostacoli che portano alla coscienza» [in René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001, pp. 9-10 – corsivo dell'Autore].
E parte integrante di questo viatico sarà quel viaggio che dal termine della notte più cupa (dagli abissi dell’ebbrezza, dagli antri dell’Io e del subconscio dunque) consente il dischiudersi alla vista delle cime incontaminate del Sé, dell’inconscio, dell’Eterno impersonale (come già ricordato in apertura della parte 1 di cui si compone questa “escursione” sopra Mont Daumal). Se, perciò «ne Il Monte Analogo il viaggio fa rotta verso l’ascesa di vette paradisiache, ne La Gran Bevutasono Inferno e Purgatorio i protagonisti» [in Marco Enrico Giacomelli,René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 219]. A latere, si annoti che ne Il Monte Analogo l’isola-continente (contenente) “aveva luogo” agli antipodi dell’area geografico-simbolica della Terra Santa [Il Monte Analogo, cit., p. 59] quindi «nel Pacifico meridionale»,analogamente il Purgatorio dantesco si ergeva inabissandosi agli antipodi della Gerusalemme storica patria di quel Melchisedec, Re di Salem (come da Genesi 14, 18) figura trattata da Guénon ne Il Re del Mondo, di cui Il Monte Analogo costituisce una sorta di controcanto narrativo. Inoltre, come puntualmente evidenzia Giacomelli, Mallarmé (altro nume riconosciuto da Daumal) così si pronunciò: «La distruzione fu la mia Beatrice» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 43].
Un viaggio, questo de La Gran Bevuta che come da Tradizione è tri-partito. Un cammino di finzione che inganna l’occhio disattento con untrompe l’œil letterario che non esclude (tutt’altro ne enfatizza) dietro le abili cortine dell’ironia un minuzioso studio su “I poteri della Parola”: «Impieghiamo qui, ancora una volta, il procedimento letterario del risveglio e riprendiamo il linguaggio illusorio che ci è così comodo» [La Gran Bevuta, cit., pp. 177-178]. Ed è altresì la questione del linguaggio che “chiude” il romanzo e, al contempo, lo dischiude poiché nella “Premessa che può servire da istruzioni per l’uso” Daumal afferma: «Io nego che un pensiero chiaro possa essere indicibile. Tuttavia l’apparenza mi contraddice: perché, come vi è una certa intensità di dolore in cui il corpo non è più interessato perché, se ne fosse partecipe sia pure con un singhiozzo, sarebbe, sembra, subito ridotto in cenere, come vi è un culmine in cui il dolore vola con le sue proprie ali, così vi è una certa intensità del pensiero in cui le parole non hanno più parte. Le parole convengono a una certa precisione del pensiero, come le lacrime a un certo grado del dolore. Il più vago è innominabile, il più preciso è indicibile. Ma, davvero, non è che un’apparenza. Se il linguaggio non esprime con precisione che un’intensità media del pensiero, è perché la media dell’umanità pensa con quel grado di intensità; è a quell’intensità che acconsente, è a quel grado di precisione che aderisce. Se non riusciamo a farci capire chiaramente, non è lo strumento che dobbiamo accusare» [La Gran Bevuta, cit., p. 13].
E’ lo stesso Daumal a soccorrerci in qualità di auto-esegeta: «Nessun meccanismo verbale può creare verità. Nessun pensiero reale può esprimersi in parole se non è stato vissuto. Ma l’uso costante del linguaggio parlato nei rapporti umani crea l’illusione che il linguaggio possa contenere in se stesso una conoscenza. Se un forestiero, nella città in cui abito, mi chiede la strada, gliela indicherò usando parole. Ma egli non percorrerà quella strada che per il fatto di avere una ragione o un desiderio di recarsi in quel dato posto della città. Ora, da sempre, gli uomini giunti a vivere una conoscenza hanno visto venire a sé altri uomini che domandavano loro la strada; coloro che avevano una meta e un desiderio di andare ricevevano le indicazioni e si mettevano in cammino. Ma la maggior parte restava lì, accontentandosi di imparare a memoria le spiegazioni del maestro, di abbellirle con la retorica, di disporle in forme logiche, infine di tracciare delle mappe; e, ciò facendo, immaginava di viaggiare» [in René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968, pp. 50-51]. Riflessioni queste che non si discostano, se non per il tono, peculiarmente lieve e scanzonato, da quelle di alcuni pensatori coevi al Nostro quali Heidegger e Wittgenstein dei quali i trattati su “I poteri della Parola” e sul linguaggio certo non difettano di gravità.
La Gran Bevuta è quindi, come il successivo Monte Analogo, pur nella repulsione che al Daumal maturo destano le parole “letterarie” [«l'odore di quella letteratura che non è altro che un ripiego, l'odore della parole che si mettono in fila per dispensarsi dall'agire, o per consolarsi di non potere» - Il Monte Analogo, cit., p. 135] un percorso che l’Autore mette a disposizione di chi desideri seguirlo, provandosi e provandoci «della “necessità” di intraprendere il viaggio» [Il Monte Analogo, cit., p. 148], a sé consapevole che gli errori ne caratterizzeranno la via, o meglio ammonendoci a cercarli perché, come rammentavamo in altro luogo di questa sezione: «Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere».
[Fine parte 2 – continua]
*: o, alternativamente, questo as-saggio….
Riferimenti minimi:
René Daumal, La Gran Bevuta, Adelphi, Milano, 1997.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002.
René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968.
René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001.
Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007.
La tesi di Marco (che qui ringrazio apertamente) è reperibile all’indirizzo internet: http://amsdottorato.cib.unibo.it/181/1/Marco_Enrico_GIACOMELLI.pdf
L’Autore ne sta curando la revisione che vedrà la luce per i tipi della Bulzoni Editore di Roma entro il termine del 2010 con il titolo di: Un filosofo tra patafisica e surrealismo. René Daumal dal Grand Jeu all’induismo.
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