giovedì, settembre 23, 2010

25 settembre a benevento

locandina3Sabato 25 settembre,presso il Club La Fagianella di Benevento inaugurazione della mostra di macchine patafisiche e spettacolo ‘patafisico Esercizi di stile e ‘patafisici frammenti, regia di Raffaele Rizzo.
La patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie.
Alfred Jarry, creatore della patafisica fu lo scrittore francese Alfred Jarry che nel suo dramma Ubu cornuto (anno 1897) scrisse: «La patafisica è quella scienza che abbiamo inventato perché se ne sentiva il bisogno». Scienza, filosofia, stile di vita. È impossibile definire la ‘patafisica’, significherebbe tradirla. Niente di meglio, quindi, per farsi un’idea, che partecipare alla Serata ‘patafisica’ che si terrà sabato 25 settembre presso il Club La Fagianella, in contrada San Liberatore a Benevento.
Mostra – ore 19.00
La serata si aprirà con l’inaugurazione della mostra di macchine ‘patafisiche. Gli artisti espositori (Francesco Alessio, Giancarlo Altamura, Ciop & Caf, Gianfranco De Angelis, Gerardo Di Fiore, Giacomo Faiella, Nando Gaeta, Rocco Grasso, Rosaria Matarese, Salvatore Paladino, Mario Persico, Andrea Sparaco, Paolo Ventriglia) sono stati invitati a progettare, ognuno a proprio modo, macchine patafisiche. Non mancherà un interessante e divertente intervento di Mario Persico, rettore dell’Istituto Patafisico Partenopeo, nonchè pittore patafisico.
Spettacolo – ore 20.30 (Durata 75 minuti)
A seguire, la performance “Esercizi di stile e ‘patafisici frammenti”, diretta da Raffaele Rizzo.
«Non si può parlare di un vero e proprio spettacolo – spiega Rizzo – sono piuttosto contributi individuali da parte degli attori che daranno vita a qualcosa che non si può ancora descrivere». D’altra parte nelle note di regia si legge: «Lo spettacolo dipende principalmente dal pubblico. E allora, prendiamo posto, e vediamo il pubblico di questa sera che cosa fa nascere sulla scena e, finalmente, che cos’è ’sta ’patafisica!».
In scena gli attori (Monica Palomby, Arturo Muselli, Rosanna Borgo, Antonio Iorio, Gerardo Del Prete, Nora Puntillo e Mimmo Grasso) si misureranno sul testo di Raymond Queneau “Esercizi di stile” e su testi di Raffaele Rizzo. Queneau nel suo libro ri-scrive la stessa storia per ben 99 volte, ma sempre in maniera nuova e facendo ricorso a diverse figure retoriche.
Le cuciture sonore e le stravaganze musicali saranno opera del trio Potlach, con Clemente Amoroso al contrabbasso, Franco Basile al sax e flauto e Marco Mattiello alla chitarra elettrica.
Infine, durante la performance si alterneranno undici slides che giocano sul simbolo dell’Istituto Patafisico Partenopeo raffigurante un tre di bastone che è considerata «figura ubuica, con quei baffoni e bocca digrignante». Autore dei giochi visivi è Giacomo Faiella.
L’ingresso è gratuito

La Rivoluzione della Rivelazione di René Daumal: parte 2 – Dalla patafisica alla metafisica

La Rivoluzione della Rivelazione di René Daumal: parte 2 – Dalla patafisica alla metafisica

di Luca Ormelli    
FONTE

«Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere». Così si esprime René Daumal ne La Gran Bevuta [Adelphi, Milano, 1997, p. 146] un «lungo racconto, scritto nel 1935 e pubblicato nel 1938, in cui si vede sfilare tutta una serie di errori viventi, nei quali ognuno può riconoscere i propri, con l’intenzione di annullare un discorso non fatto di parole che “comunichino una verità”» [dalla postfazione di Claudio Rugafiori a René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002, p. 148].
La Gran Bevuta è un racconto sul racconto che, inteso ab ovo, si fa mito e dunque mito-logia. La sua redazione, ci informa Marco Enrico Giacomelli [René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007 pp. 216 e 217]: «risale al periodo del viaggio statunitense, fra il 1932 e il marzo dell’anno successivo. In seguito il testo viene più volte rimaneggiato, fino alla stesura “definitiva” del 1937. Il progetto originario, del quale reca una traccia evidente la prima parte, consiste in una sorta di autobiografia degli anni trascorsi sotto il segno delSimplisme e del Grand Jeu. Esperienze definitivamente concluse, che l’autore ritiene di poter osservare con distacco». E’ dunque una “Mitobiografia” secondo la celebre definizione dello junghiano Ernst Bernhard. La scrupolosità con cui Daumal scrive e cesella le proprie pagine “narrative” appare sin d’ora caratterizzante tanto che, a proposito dell’inultimato e, secondo Rugafiori, «inultimabile» Monte Analogo (che de La Gran Bevuta è «in un certo senso, la continuazione» – ibidem) lo stesso Rugafiori ebbe a dire che: «Questo libro, che avrebbe dovuto essere abbastanza lungo, è stato scritto con estrema lentezza; Daumal lo iniziò nel 1939, a Pelvoux in Savoia, terminò il primo capitolo in due mesi, in seguito proseguì sempre più adagio fino all’aprile 1944. Pensando che in quel periodo, se si eccettua qualche breve traduzione di testi sanscriti e qualche lavoro di revisione, egli non preparava altro, si può misurare la meticolosità e i ripensamenti di ognuna di queste pagine» [Il Monte Analogo, cit., p. 149].
Una “Mitobiografia” si è scritto ma, e soprattutto, una ferocissima satira, una sarabanda vorticosa di conio rabelaisiano e jarryano, e segnatamente dello Jarry di Faustrolldramatis figure quelle di Rabelais e di Jarry che compariranno “di persona” nel testo. Una satira che diviene terapia del riso, l’umore dell’ascesi laddove il buffone, il foolshakespeariano si traveste di cromatismi indù come attesta Daumal nei suoi studi sul teatro tradizionale (studi dai quali si palesa il forte sincronismo e fil rouge che appaia il percorso di Daumal a quello di Artaud, in ispecie dell’Artaud de Il Teatro e il suo doppio): «E’ di castabrahmanica, confidente e guida dell’eroe, ma sempre sotto la maschera del grottesco e della stupidità. [...] La sua origine è tutt’altra che un’intenzione di satira sociale. [...] Arti e religioni degenerano quando scompare l’elemento umoristico» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 217].
Il ritorno a Parigi coincide dunque per Daumal con l’approfondimento della tradizione indù attraverso l’insegnamento (già ricordato) reperibile nei volumi dati alle stampe di Guénon [del quale Daumal, in una recensione del 1928 dirà: «Guénon non tradisce mai il pensiero indù per dei bisogni particolari della filosofia occidentale. (...) Se parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda. Nei suoi libri forse vi sono errori, interpretazioni sbagliate; non so, ma certo non tradisce» - Il Monte Analogo, cit., p. 154] e dalla persona fisica di Alexandre de Salzmann  (cui Il Monte Analogo sarà dedicato) discepolo quest’ultimo di Gurdjieff ed in seguito alla sua morte ad opera della moglie Jeanne de Salzmann. «Io, di mestiere, sono scrittore e vorrei un giorno essere poeta. La porta che per me si apre sulla tradizione indù è dunque quella delle scienze del linguaggio, della retorica e della poetica» stante che per gli antichi saggi indù (conclude Rugafiori): «l’idea di costruzione era implicata solo dai testi, dunque dalle espressioni che dovevano essere imparate a memoria, e che originavano vere e proprie “costruzioni mnemoniche”» [Il Monte Analogo, cit., p. 151]. Superando quindi grazie all’apprendimento della lingua sanscrita (che designa ciò che è “compiuto, perfetto”) i rudimenti della conoscenza indù mediante il lavoro diretto sui testi Daumal, in seguito all’incontro con la scuola gurdjieffiana di Salzmann viene iniziato a tutta una serie di pratiche ed esercizi per l’igiene psicofisica volti a debellare gli automatsimi corporei e/o mentali. Per Daumal (ancora Rugafiori): «la macchina corporea, avendo assunto un rango primario, richiedeva tutti i mezzi per una sua distruzione o per un suo possesso. Scriverà infatti l’Autore che: “pur desiderando operare con tutte le mie forze per distruggere il mio corpo, devo cominciare con il possederlo (nel significato più forte del termine: come un diavolo può possedere un corpo”). La terza e ultima parte de La Gran Bevuta intitolata “La comune luce del giorno” racconta di una discesa nel corpo umano manovrato da scimmie antropomorfe e descritto come una grande macchina idraulica» [Il Monte Analogo, cit., p. 156], testualmente l’intero paragrafo 7: «Erano grandi scimmie antropomorfe che fino a quel momento erano rimaste accoccolate, invisibili e silenziose, in ogni angolo. (…) Educare delle scimmie a far funzionare e a muovere il meccanismo, è difficile. Educare delle scimmie a equilibrare gli impulsi e le reazioni della macchina, è ancora più difficile. Educare delle scimmie a dirigere il veicolo, non vedo quando oserò soltanto sperare di riuscirvi. Eppure solo allora sarò il padrone, andrò dove vorrò, senza legami, senza paura, senza illusioni» [La Gran Bevuta, cit., pp. 175-176].
E la scimmia di sesso femminile, si badi, in francese si chiama Guenon. Un simbolo, quello della scimmia, che richiamandosi alle tradizioni sino-giapponesi defluisce poi alla simbolica occidentale con la definizione dell’Uomo quale “scimmia di Dio” e della Massoneria, libera “confraternita” quale scimmia della Chiesa. Di rimando in rimando, la metafora della macchina è assai cara a Daumal che degli automi della contemporaneità criticherà sovente il malfunzionamento: «L’uomo è una macchina; la coscienza una luce che l’illumina. La nostra odierna “coscienza” è in realtà sonno, oscurità quasi totale. [...] La macchina funziona pressappoco bene nell’oscurità – quanto basta per i bisogni della vita quotidiana (per esempio si può scrivere un grosso trattato di filosofia*, restando però addormentati). Rispetto alla macchina, il risveglio della coscienza è come un fascio di luce: un fatto di tutt’altro ordine. Quando si produce, rispetto al nostro stato di sonno (consiste in questo: ci confondiamo con la macchina) è qualcosa d’istantaneo, che si sviluppa in un’altra dimensione. Non abbiamo nessun potere sulla coscienza, non possiamo maneggiare a piacimento il proiettore». Ed ancora, poco oltre: «Noi abbiamo un minuscolo potere su certe parti della macchina (a cominciare per esempio dal nostro modo di pensare – dalle pose e smorfie inutili del nostro corpo) [...] in questo consiste il lavoro lungo e difficile, prima studiare, poi indebolire progressivamente gli ostacoli che portano alla coscienza» [in René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001, pp. 9-10 – corsivo dell'Autore].
E parte integrante di questo viatico sarà quel viaggio che dal termine della notte più cupa (dagli abissi dell’ebbrezza, dagli antri dell’Io e del subconscio dunque) consente il dischiudersi alla vista delle cime incontaminate del Sé, dell’inconscio, dell’Eterno impersonale (come già ricordato in apertura della parte 1 di cui si compone questa “escursione” sopra Mont Daumal). Se, perciò «ne Il Monte Analogo il viaggio fa rotta verso l’ascesa di vette paradisiache, ne La Gran Bevutasono Inferno e Purgatorio i protagonisti» [in Marco Enrico Giacomelli,René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 219]. A latere, si annoti che ne Il Monte Analogo l’isola-continente (contenente) “aveva luogo” agli antipodi dell’area geografico-simbolica della Terra Santa [Il Monte Analogo, cit., p. 59] quindi «nel Pacifico meridionale»,analogamente il Purgatorio dantesco si ergeva inabissandosi agli antipodi della Gerusalemme storica patria di quel Melchisedec, Re di Salem (come da Genesi 14, 18) figura trattata da Guénon ne Il Re del Mondo, di cui Il Monte Analogo costituisce una sorta di controcanto narrativo. Inoltre, come puntualmente evidenzia Giacomelli, Mallarmé (altro nume riconosciuto da Daumal) così si pronunciò: «La distruzione fu la mia Beatrice» [in Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, cit., p. 43].
Un viaggio, questo de La Gran Bevuta che come da Tradizione è tri-partito. Un cammino di finzione che inganna l’occhio disattento con untrompe l’œil letterario che non esclude (tutt’altro ne enfatizza) dietro le abili cortine dell’ironia un minuzioso studio su  “I poteri della Parola”: «Impieghiamo qui, ancora una volta, il procedimento letterario del risveglio e riprendiamo il linguaggio illusorio che ci è così comodo» [La Gran Bevuta, cit., pp. 177-178]. Ed è altresì la questione del linguaggio che “chiude” il romanzo e, al contempo, lo dischiude poiché nella “Premessa che può servire da istruzioni per l’uso” Daumal afferma: «Io nego che un pensiero chiaro possa essere indicibile. Tuttavia l’apparenza mi contraddice: perché, come vi è una certa intensità di dolore in cui il corpo non è più interessato perché, se ne fosse partecipe sia pure con un singhiozzo, sarebbe, sembra, subito ridotto in cenere, come vi è un culmine in cui il dolore vola con le sue proprie ali, così vi è una certa intensità del pensiero in cui le parole non hanno più parte. Le parole convengono a una certa precisione del pensiero, come le lacrime a un certo grado del dolore. Il più vago è innominabile, il più preciso è indicibile. Ma, davvero, non è che un’apparenza. Se il linguaggio non esprime con precisione che un’intensità media del pensiero, è perché la media dell’umanità pensa con quel grado di intensità; è a quell’intensità che acconsente, è a quel grado di precisione che aderisce. Se non riusciamo a farci capire chiaramente, non è lo strumento che dobbiamo accusare» [La Gran Bevuta, cit., p. 13].
E’ lo stesso Daumal a soccorrerci in qualità di auto-esegeta: «Nessun meccanismo verbale può creare verità. Nessun pensiero reale può esprimersi in parole se non è stato vissuto. Ma l’uso costante del linguaggio parlato nei rapporti umani crea l’illusione che il linguaggio possa contenere in se stesso una conoscenza. Se un forestiero, nella città in cui abito, mi chiede la strada, gliela indicherò usando parole. Ma egli non percorrerà quella strada che per il fatto di avere una ragione o un desiderio di recarsi in quel dato posto della città. Ora, da sempre, gli uomini giunti a vivere una conoscenza hanno visto venire a sé altri uomini che domandavano loro la strada; coloro che avevano una meta  e un desiderio di andare ricevevano le indicazioni e si mettevano in cammino. Ma la maggior parte restava lì, accontentandosi di imparare a memoria le spiegazioni del maestro, di abbellirle con la retorica, di disporle in forme logiche, infine di tracciare delle mappe; e, ciò facendo, immaginava di viaggiare» [in René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968, pp. 50-51]. Riflessioni queste che non si discostano, se non per il tono, peculiarmente lieve e scanzonato, da quelle di alcuni pensatori coevi al Nostro quali Heidegger e Wittgenstein dei quali i trattati su “I poteri della Parola” e sul linguaggio certo non difettano di gravità.
La Gran Bevuta è quindi, come il successivo Monte Analogo, pur nella repulsione che al Daumal maturo destano le parole “letterarie” [«l'odore di quella letteratura che non è altro che un ripiego, l'odore della parole che si mettono in fila per dispensarsi dall'agire, o per consolarsi di non potere» - Il Monte Analogo, cit., p. 135] un percorso che l’Autore mette a disposizione di chi desideri seguirlo, provandosi e provandoci «della “necessità” di intraprendere il viaggio» [Il Monte Analogo, cit., p. 148], a sé consapevole che gli errori ne caratterizzeranno la via, o meglio ammonendoci a cercarli perché, come rammentavamo in altro luogo di questa sezione: «Non voglio saper niente che io non abbia pagato per sapere».
[Fine parte 2 – continua]
*: o, alternativamente, questo as-saggio….


Riferimenti minimi:
René Daumal, La Gran Bevuta, Adelphi, Milano, 1997.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, Milano, 2002.
René Daumal, I poteri della Parola, Adelphi, Milano, 1968.
René Daumal, Il lavoro su di sé – Lettere a Geneviève e Louis Lief, Adelphi, Milano, 2001.
Marco Enrico Giacomelli, René Daumal (1908-1944) – Studio storico-critico, Tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia (Estetica), Università di Bologna, Esame finale 2007.
La tesi di Marco (che qui ringrazio apertamente) è reperibile all’indirizzo internet: http://amsdottorato.cib.unibo.it/181/1/Marco_Enrico_GIACOMELLI.pdf
L’Autore ne sta curando la revisione che vedrà la luce per i tipi della Bulzoni Editore di Roma entro il termine del 2010 con il titolo di: Un filosofo tra patafisica e surrealismo. René Daumal dal Grand Jeu all’induismo.

PATArubrica N.3 - Il grande motore della macchina ’Patafisica: Il Collège de ’Pataphysique (Prima parte)

PATArubrica N.3 - Il grande motore della macchina ’Patafisica: Il Collège de ’Pataphysique (Prima parte)

Giovanni Ricciardi - 22.09.2010
Un benvenuto soprattutto a voi rari lettori. 
Oggi è 15 Assoluto 138 E.P. giorno dedicato all' Ethernità. 
In Etherno, dedichiamo questa Patarubrica al grande motore che ha avviato al mondo la Scienza di tutte le scienze ed i suoi precisi studi. Sono contento di farlo qui per voi in qualità di Corrispondente Anfiteota proprio del Collège de 'Pataphysique, così che da questa posizione più o meno scientifica, spero di poter sradicare quei suoi caratteri a volte visti con difficoltà e distacco e ristabilirne il suo storico e atemporale interesse nonché, non dimentichiamo, il suo inutile funzionamento.

Dal sito ufficiale del Collège si legge: "Il Nuovo Organo del Collège de 'Pataphysique è un luogo aperto a tutti". Questa citazione firmata Février F.Bauvoisin [1] suggerisce una nuova epoca e generazione 'Patafisica del Collège.
Ma andiamo in ordine, (eccezionalmente per una volta) questa è una premessa importante per iniziare ad introdurre quell'anima che fino a pochi decenni fa ha vivificato questa "société secrète, minoritaires par vocation" come l'ha definita il Dottor Irénée-Louis Sandomir suo fondatore nel 1948. Eppure, essereminoritaria per vocazione, non era per Sandomir né una chiusura né una provocazione, come chiarisce Serge Senninger: 

"Essere minoritario per vocazione oppure per provocazione sono due cose differenti. La vocazione implica la solitudine, la provocazione invece, la folla. Questa avventura dipende invece dalla vocazione che è aspirazione discreta e ugualmente segreta nelle sue manifestazioni come nei risultati [2]".

Per il Collège de 'Pataphysique la vocazione è in ogni momento della sua storia quella di riconoscere la patafisicità dell'uomo, studiare le particolarità del mondo abbracciandolo tutto come prendendone la parte più infinitesimale e assumerla quale unica ed enorme soluzione immaginaria. 
Dunque il Collegio oggi è dichiaratamente un luogo aperto, raccoglie materiale e studi ‘Patafisici di rilievo pubblicandolo nelle proprie edizioni, ma conserva in sé sempre quella patina che lo rende come invisibile, a tratti inafferrabile e sempre con quella gerarchia inamovibile di cui tra poco ne illustreremo le patafisiche impalcature.
Chiariamo subito per sfatare ogni dubbio e idea errata, che il collegio di patafisica non è un' associazione degli amici di Alfred Jarry e non ha mai fatto "letteratura", bensì raccoglie ed emana il frutto di quelle applicazioni scientifiche descritte nei propri postulati. E' talmente fedele e coerente ai propri contenuti Patafisici, da rendersi esso stesso, visibile e contemporaneamente inesistente. Così come la patafisica non è affatto una forma di umorismo né di esoterismo, il Collège de 'Pataphysique è una società di ricerche ardue, ma si badi bene, coscientemente inutili. Queste direzioni di ricerca sono multiple e i patafisici si riferiscono ai casi particolari, ai margini, all'errore, ma trattano anche del generale, dell'universale, dell'universo. 
Vediamo di ricostruire ora quella storia che ha visto il Collège diventare non solo un luogo fisico di incontro, di frequentazione, bensì un piano, una tangente intellettuale che in modo immaginario ha unito quasi tutte le personalità più feconde del ‘900. 

Il funzionamento del Collège de 'Pataphysique è retto da STATUTI proclamati nel 76 dell'era patafisica (un anno dopo la fondazione del collegio) dal Vice-curatore fondatore Iréné-Louis Sandomir, e controfirmati dalla Provveditrice Generale Mélanie Le Plumet, il provveditore Generale aggiunto e Rogatore Jean Hugues Sainmoint e il Moderatore Amovibile (Provvisorio) Oktav Votka. Gli statuti sono pubblicati lo stesso anno in un pubblicazione interna del Collège [3].
Nel secondo capitolo degli Statuti troviamo descritta con estrema precisione la gerarchia degli ottimati. In alto su tutto si trova il Curatore inamovibile il Dottor Faustroll con la sua scimmia Bosse-de-Nage, poi il Vice-Curatore, a cui è delegata la gestione del magistero, fino ad oggi ne sono susseguiti quattro: il Vice-Curatore fondatore Sandomir, Il Barone Mollet, Opach e Lutembi. Quest'ultimo, ne regge l'attuale magistero. "Sua Magnificenza" è la nomina che spetta puntualmente ad ogni Vice-curatore.
Di seguito, gli statuti del Collegio continuano la rappresentazione gerarchica delegando un corpo di Provveditori ad amministrare i propri beni. Questi, amministrano sia i beni immaginari come quelli reali del Collège, organizzandone le pubblicazioni e le manifestazioni. Ai Provveditori spetta il compito di creare nuove cattedre dei Reggenti dopo averne accertato, sempre patafisicamente, le adeguate attività. Per aiutare l'internazionalizzazione delle attività del Collegio, sono stati creati dei Provveditori-Propagatori. (Provéditeurs-Propagateurs Sérénissimes).
Il corpo successivo è costituito dai Satrapi che, secondo gli Statuti, "non agiscono nel college che con la loro presenza, o ugualmente, con la loro assenza", qualificati come trascendenti, hanno tra di loro figure illustri come Raymond Queneau, Michel Leiris, Jean Dubuffet, Noël Arnaud o ancora Fernando Arrabal, e in Italia, Umberto Eco, Dario Fo, Errico Baj, Eduardo Sanguineti.
Le funzioni d'insegnamento sono tutelate dai Reggenti che occupano le 27 cattedre fondamentali previste dagli statuti. Il numero di cattedre non è limitativo quindi i titolari di questo corpo sono in realtà molto più numerosi. 
Seguono a questi ultimi i Datari, i quali costituiscono il rango essenziale dell'amministrazione del Collegio, anche se il loro ruolo può sembrare subalterno. Ruy Launoir li qualifica "laboriosi funzionari" [4]. Essi servono in due strutture: La Rogazione (Rogation), di cui la funzione consiste a mantenere i legami tra i corpi, e il Nuovo Organo (Novum Organum du College de 'Pataphysique). Questo corpo possiede ugualmente la propria gerarchia interna che si identifica in Protodatari, Vice-Protodatari, Deuté Rodatari, Datari e Sotto-Datari. Li si qualifica Equanimi.
Infine, gli Auditori e i Corrispondenti. Si distingue tra Auditori e Corrispondenti Reali e Auditori e Corrispondenti Apparenti. Alcuni sono anche nominati quali Auditori o Corrispondenti Anfiteota. Gli Auditori si qualificano come Stimati. Il Funzionamento del Collège de 'Pataphysique è mosso infine da una struttura molto articolata di sotto-commissioni. Ci sono 77 Sotto-Commissioni, divise a loro volta da 7 Commissioni, di cui alcune accostate da Co-commissions o appaiono a volte delle Intermissioni (15 in totale), loro stesse generano 2 Ac-commissions. 
Tutte sono sotto una Sur-commissione; I Provveditori Generali, che la compongono, possono inoltre dividersi tra una Transcommissione e una Precommissione. Terminiamo qui la prima parte riguardo il Collège de 'Pataphysique e rimandiamo alla prossima Patarubrica dove entreremo nel vivo della sua storia fatta di personalità così illustri. Approfondiremo poi l'occultazione e disoccultazione fino alle ultime attività scientifiche dei nostri giorni. 

Note :
1. Riferimento al sito : http://www.college-de-pataphysique.org/college/accueil.html 
2. Dai Carnets du Collège de Pataphysique, Serge Senninger: Journal d 'Anatole / Sythes à Sion. Serge Senninger è Provéditeur-Provecteur Général du Collège de 'Pataphysique. 
3. Collège de ‘Pataphysique. Statuts du Collège de ‘Pataphysique. Paris, Collège de ‘Pataphysique, 76 (1949).
4. Come ci suggerisce Alexandre Boutet nel suo testo Les publications du Collège de ‘Pataphysique à la bibliothèque de l'Arsenal. Alexandre Boutet, 2005



mercoledì, settembre 08, 2010


Recensione Il Re Rosa – Bao Publishing

mercoledì, 8 settembre 2010 10:33 - Scritto da Sergio L. Duma.

il re rosa cover 210x300 Recensione Il Re Rosa – Bao PublishingAutore: David B. (testi e disegni)
Casa EditriceBao Publishing
Provenienza: Francia
Prezzo: € 14, 22 x 31, pp. 48

David B. è uno degli autori più rilevanti del fumetto francese. Fondatore della casa editrice indipendente L’Association, nonché artista conosciuto prevalentemente per i suoi disegni in bianco e nero, a partire dagli anni ottanta ha dimostrato di possedere notevole talento e una eterogenea ispirazione. Oltre ad essere prolifico, David B., bisogna riconoscerglielo, ha spesso intrapreso strade espressive peculiari, al di fuori delle mode e delle tendenze, seguendo sempre e comunque le proprie esigenze comunicative.
La Bao Publishing ha proposto di recente una delle sue opere, Il Re Rosa, graphic novel certamente caratterizzata da una originalità che, a mio avviso, si discosta un po’ dal resto della produzione di David B. Innanzitutto, va puntualizzato che Roi Rose è l’adattamento fumettistico di un racconto di Pierre Mac Orlan.
Costui, oltre che narratore, fu pittore e giornalista e, soprattutto, uno dei più autorevoli esponenti del Collegio di Patafisica, che contava tra i suoi membri gente del calibro di André Gide, Boris Vian e James Joyce. Questa tendenza fu inventata dallo scrittore gay Alfred Jarry, autore di Ubu Roi, nume tutelare dei surrealisti, noto per essere stato l’adepto di una divinità legata al sesso e agli istinti, per essersi dipinto la faccia di verde in onore dell’assenzio e per aver inventato una cadenza di linguaggio robotica, con la quale si esprimeva in pubblico.
Come si può intuire, l’immaginario patafisico non è facile da rendere in ambito fumettistico; ma David B. non si è fatto intimidire e ha realizzato un’opera alla quale pensava da diversi anni. Protagonista della storia è l’equipaggio del mitico Olandese Volante. Da tempo immemorabile, i suoi componenti sono morti ma condannati a vivere nei fondali marini. Ogni notte, però, tornano al loro veliero e, per passare il tempo, attaccano transatlantici e mercantili, sperando di rimanere coinvolti in una tragedia che conceda loro il riposo definitivo.
Invece, entrano in contatto con un bambino vivo, molto dolce e carino, e peraltro non intimidito dall’aspetto dei pirati, che sono sostanzialmente scheletri degni di un film di Tim Burton. E, volenti o nolenti, i defunti sono costretti ad occuparsi del piccolino.
Re Rosa è un esperimento interessante, con momenti divertenti e altri macabri, che potrà piacere agli amanti del fumetto francese e a coloro che apprezzano il fantasy (anche se tale definizione la uso in senso indicativo). Tuttavia, la mia sensazione è che la storia in sé sia piuttosto debole, non so se per colpa di David B. o a causa di una sua intrinseca natura (ricordiamoci che la trama è farina del sacco di Mac Orlan!).
I disegni non sono male ma, sinceramente, preferisco il David B. delle opere in bianco e nero; e, in questo caso, la graphic novel, pur non essendo da bocciare, avrebbe potuto essere impostata in maniera migliore. Lo stesso vale per i testi, vivaci e adatti all’atmosfera della vicenda; però sono forse privi di elementi espressivi di stampo, appunto, ‘patafisico’, in linea con Mac Orlan, e che sarebbero stati appropriati.
Il libro è ben realizzato dal punto di vista editoriale. Ma ritengo che quattordici euro per un volume di quarantotto pagine siano eccessivi e avrei gradito comunque leggere almeno qualche notizia introduttiva su David B., considerando che, nel caso di Mac Orlan, tali notizie ci sono.

re rosa 2 300x128 Recensione Il Re Rosa – Bao Publishing                                        FONTE
   F