Robert Wyatt: la voce e i riflessi
di Stefano Aicardi - 10/07/2009
Robert Wyatt è forse la figura più universalmente rispettata nel mondo del rock, a cui ancora oggi continua a dare lezioni di finezza espressiva e autenticità. Nato a Bristol 64 anni fa, Wyatt vive dal 1973 su una sedia a rotelle, a causa della caduta da una finestra durante un party. Prima dell’incidente, Wyatt era già considerato uno dei padri nobili del jazz-rock e del progressive, sia come collaboratore dei Caravan (il gruppo più importante della nidiata di bands attive a Canterbury ed accomunate da un tipo di prog comunque vicino al formato della canzone melodica) sia come fondatore di Soft Machine e Matching Mole. Con i due album dei Matching Mole, in particolare, Wyatt aveva aperto la strada per un jazz-rock che a dispetto dei grandi nomi coinvolti (incluso Brian Eno) non scadeva nel tecnicismo. Uno spazio sempre maggiore era infatti occupato da tastiere giocattolo e in generale da strumenti elettronici che completavano il lavoro di echi e sovrapposizioni fatto sulla voce di Wyatt. Se Tim Buckley saltava continuamente da un estremo all’altro delle cinque ottave di estensione della sua voce, Wyatt otteneva lo stesso effetto rimanendo sui registri più alti e combinando vocalizzi, gorgheggi, distorsioni e sussurri riassumibili nell’intento di applicare alla musica la patafisica di Alfred Jarry (la “scienza delle combinazioni possibili” intesa come terra di mezzo colorata e sottile tra la provocazione dadaista informale e lo sproloquio barocco col suo sovraccarico di toni).
“Starsailor” di Buckley (1971) e “Rock bottom”, secondo disco solista di Wyatt pubblicato nel 1974, sono i dischi più belli e per ragioni opposte inaccessibili della storia del rock, e non a caso condividono il tema di fondo: la vastità infinita degli spazi siderali per Buckley e dei fondali marini per Wyatt come esplorazione insieme vissuta ed immaginata, derivata da una condizione di impotenza concreta (la dipendenza dalle droghe per Buckley, la convalescenza post-incidente per Wyatt). La “Alifie/Alifib” evocata da Wyatt come un mantra di stampo dada è tanto l’immagine più astratta e sognata. Per descrivere meglio la qualità di queste visioni si potrebbe pensare all’Alice di Lewis Carroll, a come gli incontri con i vari personaggi sognati passano regolarmente dall’astrazione pura a un incubo “organizzato” da cui scappare per non perdere la vita.
Il tema all’apparenza, usurato, del viaggio è rivitalizzato e messo molto tra le righe dal lavoro sulla voce, che diventa sempre di più per i due artisti un surrogato degli altri strumenti e della realtà stessa. Il canto delle sirene in Buckley ricorda allora quello dadaista delle “talpe” e delle creature del mare che cambiando forma acquistano qualcosa di misteriosamente simile all’umano (“Sea song”, “Last straw”): questo canto per così dire “in primo piano” sarebbe dolce e confortante, se non fosse per quel continuo brulicare di voci di fondo, di declamazioni frenetiche, di ansimi di fatica. Ecco, fatica più che dolore è il concetto-chiave nei testi di Wyatt solista: più ancora che il “mestiere di vivere” pavesiano, il “lavoro” è un tema che ritorna da diversi punti di vista in una specie di scala che va dallo sforzo di tornare alla vita descritto in “Rock Bottom” alla realtà concreta della politica.
Impegnato in prima fila nelle attività del partito comunista inglese, Wyatt dal 1975 fino alla fine degli anni ’80 alterna l’impegno politico diretto con una produzione musicale ad esso collegata. “Nothing can stop us” del 1982 e “Old Rottenhat” del 1985 sono i dischi più politici di Wyatt, ma in essi la materia di propaganda è trattata con un approccio che è lontanissimo dal cantautorato acustico. L’abito sonoro di Wyatt è talmente compiuto nella sua espressività dolente da poter mettere insieme canti politici con standard jazz come “Round midnight” di Thelonious Monk e successi pop come “At last I am free” degli Chic. L’atmosfera d’insieme, anche quando i testi si fanno taglienti, è segnata da una compostezza dei toni che incrocia il desiderio di innocenza infantile (l’unisono acuto di voce e tastiere) con la malinconia adulta e spaventosamente dignitosa della citata “At last I am free”.
Un ritorno alla piena attività sonora di Wyatt si ha a partire dal 1995, con “Shleep”, disco che apre una terza fase della carriera dell’artista. “Shleep” e i successivi “Cuckooland” e “Comicopera” sono album molto più corposi e ricchi di materiale, anche grazie a molti collaboratori di prestigio come Eno, David Gilmour, Phil Manzanera, Paul Weller. Lo sguardo di Wyatt si è fatto in grado di conciliare l’amarezza politica con calmi quadri di vita familiare (testi scritti da Alfreda Benge); musicalmente la novità maggiore è il ritorno della chitarra e soprattutto dei fiati, con uno sguardo rivolto consapevolmente alle radici musicali di Wyatt, tanto il jazz quanto il pop orchestrale degli anni ’30-’40 ascoltato da ragazzo in famiglia.
Visionario astratto ma anche impareggiabile intimista della vita quotidiana, Wyatt ha ricreato letteralmente il jazz dimostrando la possibilità di collegarlo con la musica pop, come veicolo di emotività e di idee che vanno ben oltre la musica in senso stretto. La complessità vertiginosa di molte sue pagine è ottenuta con mezzi elementari, senza nessuna sovrastruttura concettuale o minimalista. Quella voce delicatissima spesso ricorda i toni di un bambino che legge filastrocche le quali in modo naturale possono prendere altre forme, declamazioni, inni, associazioni dadaiste di parole, cataloghi di assonanze. La parola si confonde e allo stesso tempo è sovrapposta al suono, ripetuta, deformata ma mai spezzata fino a perdere del tutto barlumi di una forma precisa.
Il cuore, il modo di vivere nel quotidiano, nella musica di Wyatt si esprimono cioè nel loro essere anche e soprattutto una serie di sensazioni “mentali” come i ricordi del passato o le diramazioni di una scena presente nel delirio, nella fantasticheria di universi paralleli; queste sono la vera ragion d’essere della dolcezza e della grazia della musica che ne segue.
di Stefano Aicardi - 10/07/2009
Robert Wyatt è forse la figura più universalmente rispettata nel mondo del rock, a cui ancora oggi continua a dare lezioni di finezza espressiva e autenticità. Nato a Bristol 64 anni fa, Wyatt vive dal 1973 su una sedia a rotelle, a causa della caduta da una finestra durante un party. Prima dell’incidente, Wyatt era già considerato uno dei padri nobili del jazz-rock e del progressive, sia come collaboratore dei Caravan (il gruppo più importante della nidiata di bands attive a Canterbury ed accomunate da un tipo di prog comunque vicino al formato della canzone melodica) sia come fondatore di Soft Machine e Matching Mole. Con i due album dei Matching Mole, in particolare, Wyatt aveva aperto la strada per un jazz-rock che a dispetto dei grandi nomi coinvolti (incluso Brian Eno) non scadeva nel tecnicismo. Uno spazio sempre maggiore era infatti occupato da tastiere giocattolo e in generale da strumenti elettronici che completavano il lavoro di echi e sovrapposizioni fatto sulla voce di Wyatt. Se Tim Buckley saltava continuamente da un estremo all’altro delle cinque ottave di estensione della sua voce, Wyatt otteneva lo stesso effetto rimanendo sui registri più alti e combinando vocalizzi, gorgheggi, distorsioni e sussurri riassumibili nell’intento di applicare alla musica la patafisica di Alfred Jarry (la “scienza delle combinazioni possibili” intesa come terra di mezzo colorata e sottile tra la provocazione dadaista informale e lo sproloquio barocco col suo sovraccarico di toni).
“Starsailor” di Buckley (1971) e “Rock bottom”, secondo disco solista di Wyatt pubblicato nel 1974, sono i dischi più belli e per ragioni opposte inaccessibili della storia del rock, e non a caso condividono il tema di fondo: la vastità infinita degli spazi siderali per Buckley e dei fondali marini per Wyatt come esplorazione insieme vissuta ed immaginata, derivata da una condizione di impotenza concreta (la dipendenza dalle droghe per Buckley, la convalescenza post-incidente per Wyatt). La “Alifie/Alifib” evocata da Wyatt come un mantra di stampo dada è tanto l’immagine più astratta e sognata. Per descrivere meglio la qualità di queste visioni si potrebbe pensare all’Alice di Lewis Carroll, a come gli incontri con i vari personaggi sognati passano regolarmente dall’astrazione pura a un incubo “organizzato” da cui scappare per non perdere la vita.
Il tema all’apparenza, usurato, del viaggio è rivitalizzato e messo molto tra le righe dal lavoro sulla voce, che diventa sempre di più per i due artisti un surrogato degli altri strumenti e della realtà stessa. Il canto delle sirene in Buckley ricorda allora quello dadaista delle “talpe” e delle creature del mare che cambiando forma acquistano qualcosa di misteriosamente simile all’umano (“Sea song”, “Last straw”): questo canto per così dire “in primo piano” sarebbe dolce e confortante, se non fosse per quel continuo brulicare di voci di fondo, di declamazioni frenetiche, di ansimi di fatica. Ecco, fatica più che dolore è il concetto-chiave nei testi di Wyatt solista: più ancora che il “mestiere di vivere” pavesiano, il “lavoro” è un tema che ritorna da diversi punti di vista in una specie di scala che va dallo sforzo di tornare alla vita descritto in “Rock Bottom” alla realtà concreta della politica.
Impegnato in prima fila nelle attività del partito comunista inglese, Wyatt dal 1975 fino alla fine degli anni ’80 alterna l’impegno politico diretto con una produzione musicale ad esso collegata. “Nothing can stop us” del 1982 e “Old Rottenhat” del 1985 sono i dischi più politici di Wyatt, ma in essi la materia di propaganda è trattata con un approccio che è lontanissimo dal cantautorato acustico. L’abito sonoro di Wyatt è talmente compiuto nella sua espressività dolente da poter mettere insieme canti politici con standard jazz come “Round midnight” di Thelonious Monk e successi pop come “At last I am free” degli Chic. L’atmosfera d’insieme, anche quando i testi si fanno taglienti, è segnata da una compostezza dei toni che incrocia il desiderio di innocenza infantile (l’unisono acuto di voce e tastiere) con la malinconia adulta e spaventosamente dignitosa della citata “At last I am free”.
Un ritorno alla piena attività sonora di Wyatt si ha a partire dal 1995, con “Shleep”, disco che apre una terza fase della carriera dell’artista. “Shleep” e i successivi “Cuckooland” e “Comicopera” sono album molto più corposi e ricchi di materiale, anche grazie a molti collaboratori di prestigio come Eno, David Gilmour, Phil Manzanera, Paul Weller. Lo sguardo di Wyatt si è fatto in grado di conciliare l’amarezza politica con calmi quadri di vita familiare (testi scritti da Alfreda Benge); musicalmente la novità maggiore è il ritorno della chitarra e soprattutto dei fiati, con uno sguardo rivolto consapevolmente alle radici musicali di Wyatt, tanto il jazz quanto il pop orchestrale degli anni ’30-’40 ascoltato da ragazzo in famiglia.
Visionario astratto ma anche impareggiabile intimista della vita quotidiana, Wyatt ha ricreato letteralmente il jazz dimostrando la possibilità di collegarlo con la musica pop, come veicolo di emotività e di idee che vanno ben oltre la musica in senso stretto. La complessità vertiginosa di molte sue pagine è ottenuta con mezzi elementari, senza nessuna sovrastruttura concettuale o minimalista. Quella voce delicatissima spesso ricorda i toni di un bambino che legge filastrocche le quali in modo naturale possono prendere altre forme, declamazioni, inni, associazioni dadaiste di parole, cataloghi di assonanze. La parola si confonde e allo stesso tempo è sovrapposta al suono, ripetuta, deformata ma mai spezzata fino a perdere del tutto barlumi di una forma precisa.
Il cuore, il modo di vivere nel quotidiano, nella musica di Wyatt si esprimono cioè nel loro essere anche e soprattutto una serie di sensazioni “mentali” come i ricordi del passato o le diramazioni di una scena presente nel delirio, nella fantasticheria di universi paralleli; queste sono la vera ragion d’essere della dolcezza e della grazia della musica che ne segue.
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